Lavoro

2020 – l’anno n/zero per i musicisti italiani

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Fornaci Rosse - Vicenza - musica- Antonio Gallucci - lavoro - sindacato

Dall’attività concertistica alla concertazione: la necessità di creare una vera coscienza di classe per ottenere le tutele mancanti, da sempre.

Vivo a Vicenza da molti anni, pur essendo di origine salentina, e provengo da una famiglia leccese in cui la Musica è stato e continua ad essere elemento centrale e passione condivisa. Ho iniziato a suonare dal vivo professionalmente più di 20 anni fa, e quindi ho potuto vivere sulla mia pelle diverse fasi che l’arte performativa musicale ha attraversato a partire dalla seconda metà degli anni ‘90 in poi in questo paese.

La riflessione imposta da questo difficile periodo caratterizzato dalla sciagura pandemica e soprattutto dalle conseguenti devastanti (e per me anche in parte discutibili) misure di natura socioeconomica applicate dai governi di molti paesi, tese di fatto ad annullare (per la tutela della salute pubblica) ogni attività performativa che prevedesse un pubblico, mi porta alle seguenti considerazioni, stimolate anche dalla mia attività di sindacalista, parallela a quella di musicista, che mi consente una visione sicuramente più “tecnica” sulla situazione attuale della categoria dei musicisti italiani, da un punto di vista privilegiato in molti sensi, che però spero di poter mettere al servizio della causa fornendo qualche utile spunto.

Il mondo dei musicisti italiani “professionisti” è una realtà estremamente complessa e frastagliata, costituita da figure professionali molto diverse tra loro (basti pensare alla differenza sostanziale che passa tra la posizione lavorativa di un orchestrale dipendente a tempo indeterminato, quella di un turnista inquadrato come dipendente intermittente ed infine un musicista “freelance”, con o senza partita iva, con o senza affiliazione ad una cooperativa di servizi) e che fatica spesso anche ad auto-definirsi, a partire dal concetto stesso di “professionismo”, che provo qui di seguito a riassumere.

Per chi scrive, l’esecuzione musicale da un punto di vista legale è assimilabile ad una prestazione di opera intellettuale (fattispecie disciplinata dal codice civile, anche se un albo professionale dei musicisti è tuttora inesistente) per cui un “professionista” è chiunque esegua un lavoro dietro pagamento di un corrispettivo, e cioè c’è professionismo laddove esista un determinato compenso a fronte della prestazione stessa.

Il fatto che, parallelamente all’attività concertistica, vi sia la compresenza di altre attività o altri mezzi di sussistenza (come ad esempio un altro lavoro o una famiglia facoltosa alle spalle che “copra le spese” o ancora la riscossione di affitti su case di proprietà) è un elemento ininfluente: se il lavoro di quel musicista viene richiesto e retribuito, in via continuativa nel tempo e non occasionale, quella è giuridicamente qualificabile come una prestazione professionale, e di conseguenza lui come un professionista, che dovrà avere diritto alle tutele previdenziali e alle agevolazioni fiscali del caso, diventando dall’altro lato un contribuente attivo.

Questa definizione può sembrare di poco conto ma è nei fatti fondamentale per aiutare ad inquadrare correttamente la categoria ed il profilo del musicista professionista in questo paese: la Musica, come anche altre discipline artistiche, si colloca in effetti su di un territorio sdrucciolevole caratterizzato da quote variabili di professionalità, necessità di libertà espressiva e passione, contando peraltro su una buona fetta di musicisti “dilettanti” o “hobbisti” (termine tremendo) che nei fatti costituisce anche la prima e più qualificata componente del pubblico ai concerti e (aspetto da sottolineare) rappresenta la più importante fonte di reddito per tutti i musicisti che svolgono anche l’attività parallela di insegnanti di musica.

Tuttavia, se appare complesso lo sforzo logico di definizione di un, eventuale, “perimetro contrattuale dei lavoratori della Musica”, ancora di più lo è quello volto alla gestione il più possibile omogenea dell’attività musicale sotto i profili delle tutele professionali da un lato e, dall’altro, degli aspetti fiscali e previdenziali, data la già citata eterogeneità delle forme con cui questa arte viene esercitata (partite iva, lavoratori intermittenti, dipendenti delle cooperative e orchestrali): lo sa bene chi ha provato ad inerpicarsi nelle scorse settimane tra i sentieri tortuosi delle indennità e dei ristori dell’INPS previsti dai decreti d’emergenza Covid.

Peraltro posso affermare senza grosso timore di smentita che il Musicista (ma diciamo pure l’Artista in generale), sulla base della mia esperienza, tende per indole e generalmente a dare poco peso alle faccende “legali” e burocratiche riguardanti la propria condizione professionale, ed è quindi fondamentalmente destinato ad accorgersi di questa leggerezza nei momenti più complicati, come è indubbiamente quello che stiamo vivendo ora, momenti in cui peraltro è anche spesso più difficile organizzarsi ed agire per risolvere le tante questioni ancora sospese.

Senza voler entrare troppo nel merito dei singoli aspetti (tanti, troppi per essere affrontati in questa sede), ritengo che il principale dei problemi risieda, oggi, nella difficoltà per la categoria di trovare una efficace interfaccia a livello istituzionale attraverso cui traslare le tante istanze ed i temi irrisolti (tutele, fiscalità, previdenza pubblica, assicurazione sugli infortuni) ad un livello politico sufficientemente elevato da poter essere, una volta per tutte, risolutivo.

Il primo tassello mancante per poter fare finalmente questo “salto di qualità”, dal mio punto di vista, è senza dubbio quello della creazione e del consolidamento di una vera e propria “coscienza di classe” per la categoria, che solo negli ultimi difficili mesi della pandemia ha iniziato a formarsi in diversi contesti associativi (ottimo il lavoro in questo senso svolto da soggetti come il Nuovo IMAIE ed il MIDJ – Associazione Musicisti Italiani di Jazz), il che è indubbiamente una buona news, anche se c’è ancora tanta strada da fare. Insomma sta nascendo qualcosa di importante in questa direzione, ma mi pare sia ancora troppo presto per capire davvero cosa, e con quali prospettive: si parla di associazioni, di collettivi e di cooperative, ma a mio modesto (e parzialissimo) parere, quello che serve oggi è un vero e proprio sindacato, nel senso più inclusivo, determinante, efficace e “politico” del termine.

Un sindacato che possa finalmente rispondere alla domanda fondamentale “chi siamo”, per poi riuscire a fare sintesi tra le diverse istanze prodotte dalle variegate figure professionali operanti nella categoria, soppesandole ed analizzandole, ed infine relazionarsi con le istituzioni politiche e amministrative a tutti i livelli per iniziare a costruire il sistema di tutele e diritti connessi alla professione del musicista in Italia, sistema di cui c’è una necessità assoluta ed urgente, già da oggi.

Troppo spesso mi sento rivolgere la domanda “a cosa serve oggi il sindacato?” “perché dovrei iscrivermi? qual è l’utilità per me?”. La risposta a questa domanda fatidica, senza voler in alcun modo assolvere il ritardo evidente con cui i sindacati confederali stessi si son mossi per affrontare la questione, forse risiede nella corretta riformulazione della stessa, che dovrebbe essere: “in che modo io, iscrivendomi ed entrando a far parte de sindacato, posso contribuire al miglioramento delle condizioni della mia categoria di lavoratori?”: evitare di vivere il sindacato come un soggetto terzo ma iniziare a vedere sè stessi come parte di esso, e magari parte agente e modificante di esso, è la mia sostanziale risposta.

La costruzione di una “coscienza di classe” (termine che qualche lettore potrà trovare desueto ma che ritengo essere tutt’oggi l’unico a centrare con precisione il concetto) è un passo fondamentale per arrivare, seguendo un percorso concertativo e contrattuale collettivo, ad una stabile forma di tutela sindacale che prescinda e superi la trattativa individuale che risulta spesso e volentieri parte debole nel rapporto di forze dei contratti di lavoro per servizi artistici. Basti pensare ad un esempio molto semplice: un musicista che si vede annullato un concerto pochi giorni (spesso poche ore) prima del suo inizio, per decisione unilaterale del committente (locale/ente/privato) quasi mai ha nei fatti la facoltà di richiedere un risarcimento per il mancato introito subito, salvo eccezioni, sempre e comunque troppo poche.

Provocatoriamente, potrei affermare che occorre evitare che il refrain secondo cui quello del musicista non sia un vero e proprio lavoro (“cosa fai nella vita?” “il musicista” “si ma cosa fai di lavoro?” è un meme evergreen…), faccia vittime tra i musicisti stessi, e che tutti, a partire da loro, si inizi a considerare la Musica come un lavoro vero e proprio, con la dignità e le tutele ad esso connesse, oltre che con tutti gli adempimenti fiscali e previdenziali correlati e necessari. Per essere chiari: ogni musicista professionista in un ideale ma concretamente prossimo futuro (se vogliamo davvero uscire da questo buio senza ricascarci mai più) dovrà poter essere, da un lato, soggetto beneficiario delle tutele previdenziali e fiscali alla pari di ogni altro lavoratore di questo paese, ma dovrà diventare dall’altro lato un contribuente previdenziale e fiscale, facendo in tal modo emergere la propria attività artistica professionale in tutta la sua dignità giuridica.

Occorre certo correggere alcune storture ed iniquità attualmente presenti, come ad esempio l’assurda esenzione dal pagamento dei contributi previdenziali riservata a quei musicisti che, per effetto di altre attività lavorative, stian già pagando contributi ad una gestione diversa da quella per i lavoratori dello spettacolo: questa regola è sbagliata due volte, perché da un lato impedisce a chi svolge la professione di musicista accanto ad altre attività di potersi costruire una posizione contributiva correlata all’ attività artistica ma soprattutto, dall’altro, genera una concorrenza “sleale” tra musicisti soggetti contributivi e musicisti esenti, a vantaggio ovviamente dei secondi, che posson proporsi a festival e locali ad un cachet molto più basso in quanto privo della quota contributiva.

Molta strada insomma è ancora da fare, tuttavia credo che a molti, oggi, il sentiero appaia ben tracciato.

Parafrasando un uomo più saggio di me che ho sentito parlare recentemente: una mentalità riduttiva, ma dominante nella cultura contemporanea, e molto italiana, troppo semplicisticamente schematizza le attività umane in “professionali” e “passioni”: in realtà, per chi prende ogni cosa seriamente, tutto è LAVORO, poiché sono coinvolti sempre la fatica, l’impegno, lo studio, la ragione, l’affezione, la capacità di rapporto personale, di coinvolgimento delle persone nei propri progetti, i desideri e perfino i fallimenti … ossia tutti sé stessi.

Con tutto ciò che ne consegue…

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