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Caccia alla strega: l’Italia che ha paura di Silvia Romano.

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di Chiara Celoria

La stampa italiana, notoriamente alla ricerca di notizie succulente, informa la nazione che Silvia Romano esce per recarsi in un centro estetico. Addirittura si tratta della sua “prima meta dopo la fine della quarantena” – insistono – quasi increduli del fatto che l’estirpazione dei peli possa essere il suo primo pensiero di ritorno da una lunga prigionia e da una forzata reclusione domiciliare a causa del Covid-19 (e forse dell’infamia di giornalisti e detrattori). Anche chi la difende non si esime dal riportare uno scatto che immortala il momento e dal sottolineare che al tempio laico della bellezza occidentale, Silvia ci va velata, coperta dal simbolo della sua conversione al “maligno”.

Che l’avvicinamento alla religione islamica sia avvenuto in libertà o in uno stato psicologico di  condizionamento non dovrebbe interessare nessuna frangia del popolo italiano, dai lettori ai fanatici della televisione, eppure è la chiave di volta che ha tramutato l’apprensione per il rapimento di una giovane di sani principi dedita alla carità cristiana in un sentimento di rabbia diffusa nei confronti di un’ingrata, nel frattempo fattasi pure terrorista. La metamorfosi di Silvia in un nemico fa capo a un fenomeno modernissimo – quello  dell’incitamento all’odio da parte dei cosiddetti “leoni da tastiera” – e al contempo antichissimo e ciclico.

Ogni cultura, demonizzando ciò che è altro al di fuori di sé, crea i propri mostri. Poiché non lo comprende, lo identifica con il caos e le forze nemiche. L’approccio all’alterità inizia con diffidenza e chiusura, tendendo, sulla base di preconcetti e su poche notizie vere ma mistificate, a distorcerne l’immagine. Di un simile gioco di potere ne parlava Edward Said nel suo testo fondamentale Orientalism del 1978, descrivendo appunto l’orientalismo come sistema di rappresentazione adottato dagli Stati Uniti, in maniera più o meno consapevole, per costruire intorno al mondo arabo e in generale orientale, un’aura di minaccia alla stabilità e supremazia dell’Occidente.

Con diverse premesse e altrettanto diversi orizzonti di ricerca, il linguista russo Jurij Lotman ha elaborato la sua semiotica della cultura. Alcune delle sue riflessioni degli anni ‘90, raggruppate in un articolo a cura di Silvia Burini intitolato Caccia alle streghe. La semiotica della paura e facente parte dei materiali di un convegno a Venezia del 2008, mi sembrano interessanti per approfondire questo tema. L’irruzione dei reietti, letteralmente coloro che vivono ai margini di una determinata società perché privi delle caratteristiche che li accomunano ai suoi membri, genera uno sconvolgimento nel sistema, ma allo stesso tempo, sostiene lo studioso, è il vero stimolo alla trasformazione della cultura da un modello statico a dinamico. Ogni sistema o individuo ha bisogno, dunque crea, un extrasistematico, che in un secondo tempo assimilerà per potersi rinnovare. In questo processo manipolativo è cruciale il ruolo della paura, l’emozione collettiva più evidente e analizzabile. Sempre secondo Lotman, l’osservazione della psicologia delle masse nei momenti di crisi o conflitti si rivela molto utile per comprenderne i funzionamenti di base  in momenti di normalità.

L’insorgere della paura avverrebbe secondo due modalità: la prima, come reazione giustificata a un pericolo chiaramente individuato (un’epidemia – per quanto ai nostri giorni sembra esserci chi smentisce l’effettività di questo tipo di calamità), la seconda, come attacco smisurato di terrore verso una minaccia di cui si ignora l’origine. Emblema di quest’ultima modalità è la caccia alle streghe. Nel concetto di strega si possono isolare i segni che in altre situazioni – a noi molto note – sono attribuiti a comunità dannose per l’integrità di una nazione sotto svariati aspetti, da quello politico a religioso. Anzitutto è un presupposto l’appartenenza a una minoranza che fatica a difendersi, secolarmente identificata con le donne, ancor più se manifestano comportamenti inappropriati esponendosi pubblicamente. In generale è proprio l’espressione di tratti e qualità particolari che suscita sospetto: non sono caratteristiche sempre uguali e fissate da un canone ad attirare l’attenzione degli accusatori, bensì l’antipodicità di tali caratteristiche, e l’estremo in opposizione a una classe giudicante di medio livello.

Condanna legata in modo inestricabile alla sfera femminile è poi il desiderio, considerato spesso predatorio e minaccioso per la posizione dominante del maschio. La strega è stigmatizzata per atteggiamenti di prossimità alla perversione anche in assenza di atti a sfondo sessuale. Laddove manca il pretesto per trasformare la vittima di violenza in connivente o carnefice, si costruisce ad hoc la circostanza: di qui le allusioni pornografiche e sessiste sui presunti rapporti consumati da Silvia con i rapitori.

L’altra minoranza cui si fa riferimento ha una connotazione religiosa non casuale, il processo alle accusate di stregoneria fa leva sull’evidenza di una gestualità ritualistica che appartiene a un’antifede, una religione in cui i concetti di Bene e Male sono rovesciati, come nel satanismo. Per ottenere il riconoscimento di chi pratica il maleficio la tortura è scelta come elemento principale dell’inchiesta giudiziaria. Di tortura mediatica Silvia Romano è stata ampiamente un bersaglio, e speriamo che i commenti astiosi sui social si esauriscano e non conducano all’inevitabile fine della strega: la messa al rogo.

Non è strano che il panico legato alla stregoneria si acuisca in tempi in cui il progresso in campo culturale e scientifico raggiunge alti livelli, anzi. Lotman osserva con curiosità che da un punto di vista storico ha coinciso paradossalmente con il Rinascimento, per poi affievolirsi con l’avvento di nuove preoccupazioni.

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