
di Giuseppe Rigobello
Com’è noto la disposizione di diritto internazionale che pone la definizione di rifugiato come individuo che ha il diritto di non essere rispedito nel paese di provenienza, è contenuta nel primo articolo della Convenzione di Ginevra del 1951. Ciò che rende meritevole di tutela il rifugiato è il fondato timore di, in caso di ritorno nel paese di origine, “venire perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un gruppo sociale particolare o opinione politica”.
Il problema del mancato riconoscimento dei rifugiati climatici sta tutti qui: com’è evidente questa disposizione non comprende il caso in cui lo spostamento da un paese ad un altro sia dovuto, invece che al timore di una persecuzione, alle conseguenze dei cambiamenti climatici, nonostante oggi siano queste alcune delle cause principali (per quanto indirette) dei grandi fenomeni migratori a cui stiamo assistendo. Naturalmente la Convenzione di Ginevra risente dei tempi in cui è stata stipulata, quando, all’indomani della seconda guerra mondiale, il problema non poteva nemmeno essere considerato e tutti avevano sotto gli occhi gli orrori della persecuzione di milioni di persone in virtù della propria etnia, orientamento sessuale e opinione politica. Alle carenze della disposizione di diritto internazionale ha cercato di far fronte la dottrina giuridica, cercando di interpretare il dettato della convezione in maniera estensiva. Il problema è quello di capire quando una persona non è più semplicemente un migrante, ma diventa un rifugiato; in virtù di cosa si concede il diritto di asilo.
Alcuni autori hanno allora considerato l’asilo come risposta alla deportazione, che consiste nella violazione del diritto di residenza nel proprio stato, in virtù quindi non solo di guerre o persecuzioni ma anche di fenomeni dovuti al cambiamento climatico, dalla siccità all’inondazione, dall’erosione delle coste alla desertificazione.
Un secondo tentativo di far rientrare i migranti climatici nella nozione di rifugiato si basa sulla responsabilità della comunità internazionale, e in particolare gli stati occidentali, rispetto all’incidenza dei cambiamenti climatici essendone la causa e non arrivando a soluzioni. Si giustifica qui il diritto di asilo facendo appello a premesse di ordine morale, in particolare, cosa molto interessante, basandosi sul concetto di giustizia climatica, che, essendo stata violata, va ristabilita concedendo adeguata protezione. Questa teoria però difficilmente può avere rilevanza giuridica, basandosi appunto su presupposti morali e non di diritto positivo.
La verità è che il problema è un altro: la definizione di rifugiato su cui si basa la concessione del diritto di asilo è molto chiara e non comprende chi fugge dalle emergenze climatiche ed ambientali. Non serve allora cercare azzardate estensioni del significato della norma in via interpretativa, ma si deve porre il problema puramente politico del riconoscimento dei rifugiati ambientali. Si deve chiedere una nuova norma che riguardi direttamente queste persone e lo si deve fare proprio sulla base della nozione di giustizia climatica, che ci riconosce responsabili verso ciò che accade, in maniera più forte che qui, nei paesi da dove fuggono migliaia di persone.
In Italia abbiamo avuto dei rari casi che fanno comunque ben sperare in cui un giudice ha riconosciuto i diritto di rimanere in Italia a delle perone proprio in virtù di problematiche ambientali del paese di origine. Da ultima la sentenza de L’Aquila del 2017 riguardo a profugo proveniente dal Bangladesh che si era indebitato in maniera irrimediabile dopo che il suo terreno agricolo era stato distrutto da un’inondazione. Bisogna però dire che gli è stata concessa solamente la protezione umanitaria, quindi non un diritto di asilo pieno. Protezione umanitaria che, tra l’altro, come ben sappiamo è stata recentemente abolita dai “Decreti sicurezza” di Salvini.
Vorrei ora fare una provocazione: un’analisi più penetrante delle migrazioni di carattere ambientale deve portarci a porci la domanda se abbia davvero senso riconoscere il diritto di asilo a chi fugge dalle conseguenze dei cambiamenti climatici. E’ un sistema efficace di tutela?
Possiamo a questi fini distinguere due diverse situazioni: quella in cui il cambiamento climatico sia una causa diretta della fuga delle persone ( come ad esempio per un evento atmosferico estremo o per l’erosione delle coste) e quella invece in cui il clima sia una causa indiretta.
Nel primo caso certamente il riconoscimento dei rifugiati climatici è efficace per la tutela delle persone. Paradigmatica è la tragedia delle piccole isole del Pacifico che stanno letteralmente sparendo. Si deve però riconoscere che questi casi sono di gran lunga marginali rispetto a tutte le altre situazioni in cui l’innalzamento delle temperature provoca migrazioni. Casi del genere poi solitamente provocano sì ingenti spostamenti della popolazione (si pensi ad esempio alle conseguenza di un uragano), ma spostamenti che per lo più rimangono all’interno dei confini dello stato in questione.
Ben più rilevanti sono invece le situazioni in cui la crisi climatica si somma alle altre problematiche di natura economica e sociale provocandone un aggravamento. Come abbiamo visto le conseguenze del riscaldamento globale possono scatenare conflitti sia tra stati diversi, sia interni ad essi, per il controllo delle risorse; può distruggere l’economia di una popolazione eccetera.. In questo caso il richiedente asilo non baserà la propria richiesta sulla causa remota (la crisi ambientale), bensì la motivazione sarà la sua conseguenza, cioè o il conflitto (e allora ci saranno gli estremi per concedere il diritto d’asilo) oppure le questioni di natura economica ( e dunque sarà etichettato come “migrante economico”). La condizione di questi “migranti economici” la conosciamo bene: impossibilità di essere accolti e soggezione, almeno in linea teorica, al rimpatrio. Ricordiamo anche che è pressoché impossibile arrivare legalmente in Italia per motivi di ricerca di lavoro, grazie ad una legislazione (Bossi-Fini in primis) che aggrava volutamente la procedura proprio per impedire l’accesso al mercato del lavoro italiano alle persone che vengono dal Terzo Mondo.
Questo discorso è supportato dalla prassi: si può notare infatti quanto raramente i richiedenti asilo dichiarino che il motivo della loro fuga sia dovuto a problematiche ambientali.
La questione che ci pone davanti l’innalzamento delle temperature e la giustizia climatica è dunque di natura ben più ambia rispetto al mero riconoscimento dei rifugiati ambientali (cosa comunque a cui non si deve rinunciare), bensì ci impone considerazioni di natura più generale sul nostro modo di gestire e di organizzare la questione migratoria. Ci impone di constatare l’insensatezza della distinzione tra rifugiato e migrante economico, riconoscendo a tutti una generale libertà di movimento.
Il cambiamento climatico muta radicalmente la politica (nel senso più alto del termine) e cambia il diritto. Ci si trova davanti a situazioni, come quella estrema ma assolutamente paradigmatica della scomparsa delle isole del Pacifico, a cui la categorie politiche occidentali non riescono a dare risposte (viene meno il rapporto tra un popolo e un territorio specifico su cui questo si insedia, entra in campo un tipo di responsabilità del tutto diversa da quella su cui si basa la nostra etica e il nostro diritto, si afferma una problematica rispetto alla quale il singolo stato nazionale si ritrova impotente). Anche senza andare su questioni di natura così generale e (fino ad un certo punto) teoriche, è chiaro che l’adattamento (come anche il tentativo di dare una soluzione) alla crisi climatica porta ad una radicale messa in discussione del diritto vigente e ciò soprattutto sul fronte delle migrazioni. La forza dei numeri di chi si mette in movimento già oggi e soprattutto in futuro per ragioni legate ai cambiamenti climatici ci impone una riflessione profonda a riguardo, nei termini prima considerati di liberà di movimento. Ripeto: la vera novità che la crisi climatica ci pone davanti è lo svelamento dell’ingiustizia della distinzione tra chi fugge da una guerra (che avrà diritto all’asilo) e chi fugge da un disastro economico causato dalla logica di predazione delle risorse su cui di basa in nostro sistema economico (che non avrà dritto a protezione).
Ripensare in generale la mobilità mondiale in termini più equi è una necessaria politica di adattamento ai cambiamenti climatici. Una mobilità che deve però essere realmente equa, non deve essere, com’è ora, lo specchio di un ordine internazionale profondamente ingiusto, dove un passaporto di un paese occidentale vale (in termini di libertà di movimento) di gran lunga di più di quello di un paese africano.