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Così non si lavora.

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di Simone Maniglio

Quante volte ci siamo sentiti dire “le faremo sapere”? Quante volte alla fine di un contratto abbiamo dovuto ricominciare tutto da capo? Ma soprattutto dopo quanti anni di precariato il lavoro diventa un diritto?

È innegabile che il problema del precariato sia ormai endemico nel nostro paese. Dai lavoratori della cultura ai precari della scuola passando per il labirinto degli stage, dei tirocini, degli apprendistato, possiamo con buona ragione affermare che le ultime generazioni affacciatesi al mondo del lavoro, figlie inascoltate della grande crisi del 2008, abbiano frequentemente immaginato il proprio futuro professionale come un difficile percorso fatto di contratti a tempo determinato, quando non a nero, e di sfruttamento. Troppo spesso però si continua a pensare a questo percorso come individuale, una strada nella quale è la capacità del camminatore a determinarne la difficoltà, ed uno dei problemi sta proprio qui: nel concepire la questione del precariato come una problematica legata esclusivamente all’individuo e al suo merito, senza considerare la sua situazione di provenienza e i problemi strutturali del sistema lavoro in Italia. Proprio questa individualizzazione diviene un ricatto: cosa può un lavoratore isolato, a cui si dà la colpa di un problema così grande come il precariato, di fronte alla possibilità che gli venga tolto il pane?

Proprio come avviene per alcune malattie mentali, la cui causa viene esclusivamente ricercata nel passato del paziente piuttosto che in determinate contingenze economiche e sociali (dal sistema patriarcale al burnout da troppo lavoro), il problema del precariato viene declassato da problema sociale a questione psicopatologica e individuale, evitabile grazie alle sole buone capacità del lavoratore.

Cosa succederebbe se tutti i precari si accorgessero che i loro problemi individuali sono in realtà causati da un sistema economico ingiusto? Cosa succederebbe se questi precari cominciassero a discutere riguardo alla propria condizione instabile per immaginarne un cambiamento? Cosa succederebbe se questi precari fossero in grado di comunicare agli altri lavoratori i propri problemi con l’intenzione di condividere le difficoltà e di solidarizzare l’uno con l’altro?

Proprio queste sono le domande che nell’estate del 2019 hanno portato un gruppo di giovani vicentini a costruire il percorso delle Acampade sul precariato: un ciclo di assemblee caratterizzato dalla condivisione delle problematiche legate al precariato animato da chi quest’ultimo lo sta vivendo sulla propria pelle o quasi sicuramente ne assaggerà l’amarezza. Le assemblee si sono caratterizzate dall’elaborazione di cinque rivendicazioni chiave per poter cominciare un dibattito serio sul precariato che possa portare alla soluzione reale dei problemi, al di là di facili proclami o di uno sfruttamento forse meno manifesto ma sicuramente più alienante:

1. Un contratto e un salario dignitoso per tutti: stop al lavoro nero, ai tirocini non pagati, ai contratti pirata, alle partita iva finte. Si applichino a tutti i contratti nazionali “sani” firmati dai grandi sindacati.

2. Donne e uomini, stesso lavoro, stesso stipendio: non è più accettabile che le donne vengano pagate il 16% in meno degli uomini per svolgere stesso lavoro.

3. Un milione di posti di lavoro nell’economia sostenibile: in Italia ci sono 6 milioni di disoccupati e inoccupati, energie che potrebbero essere usate per rendere la nostra economia veramente verde.

4. Lavoriamo meno, lavoriamo tutti: l’automazione rende sempre meno necessario il lavoro umano, non ha più senso lavorare così tanto.

5. Abbiamo diritto ad andare in pensione: la pensione diventa sempre più un miraggio per chi lavora, è tempo di stabilire un’età massima dopo cui nessuno può essere obbligato a lavorare per sopravvivere.

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