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Questo articolo è una riflessione stimolata dal precedente contributo di Giuseppe riguardo il caso di gestione collettiva di uno stupro all’interno di un ambiente politicizzato.
È necessario fare una premessa che sarà di chiarificazione a chi legge e necessaria al ragionamento a chi scrive.
Esistono una serie di modelli di giustizia che si diversificano per la variabile che viene presa in considerazione e che quindi diventa il focus su cui intervenire. Ne consideriamo alcuni, utilizzando come riferimento il testo “Psicologia della devianza” di De Leo e Patrizi del 2014:
Il modello punitivo retributivo che prevede una “giusta” punizione per chi commette il reato. In questo caso la persona viene sanzionata e questo permette al resto della società di “espellere” il soggetto sovversivo e tornare all’ordine: attraverso questa dinamica la società resta pulita e il colpevole viene punito. Buoni coi buoni, cattivi coi cattivi.
Il modello rieducativo trattamentale che si focalizza invece sul lato “curativo” del sistema di giustizia. Si tratta quindi di trasformare la caratterizzazione punitiva in educativa, anzi, ri-educativa in base al principio di umanizzazione della pena (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 27, 1947). Questo secondo modello ha come scopo il reinserimento sociale della persona, comprende quindi la gestione della vita in carcere e le misure alternative alla reclusione. Si fanno interventi mirati con la persona, si lavora sulle cause di un determinato modo di agire e sullo sviluppo di nuove competenze e acquisizione di strumenti che possano mettere in luce comportamenti alternativi a quelli d’infrazione.
Negli ultimi anni si sta sviluppano il modello riparativo in cui il focus è la vittima. Ci si concentra quindi sulla “relazione” tra le parti o, in questo caso, sul conflitto. C’è una persona che ha subìto un danno e una persona che deve riparare al danno. Si tratta di un modello “ponte” tra quello rieducativo e quello retributivo. Per questo modello si considera la pena come strumento per risanare il conflitto tra le parti. La vittima è il referente su cui ci si concentra nell’organizzare l’intervento da attuare col reo.
(De Leo & Patrizi, 2014)
Leggendo l’articolo di Giusi Palomba mi sono venute in mente queste pagine. È come se esistessero dei percorsi di reazione alle cose: accade un fatto negativo e c’è un colpevole noto. Il colpevole va punito. Non solo, va espulso perché mette in pericolo l’ordine sociale.
Entra in gioco in questo meccanismo un processo di attribuzione di identità per cui la persona viene etichettata come “criminale” o “deviante”.
Cosa dice la Palomba nel suo articolo?
“Abusatore. Sciovinista. Manipolatore. Stupratore.
Sono le parole che da quel momento in poi gli sono state urlate, sussurrate, pensate e dette contro, dietro e davanti”
Prendiamone una. Stupratore. Il ragazzo in questione è diventato uno stupratore.
È successo qualcosa, ha fatto qualcosa che ha cambiato la sua identità in modo netto. La sua caratteristica principale non è più stata quella di essere un appassionato di (invento) fumetti. La sua identità ora è riconducibile tutta a un evento.
Questo non lo giustifica ma forse, può permetterci di capire meglio.
Allargo il ragionamento.
Quando attacco qualcuno (dove per attaccare si intende alzare un po’ la voce e sempre con un profondo senso di colpa figlio dello stesso meccanismo distorto di cui parlo ora) mentre stiamo discutendo di femminismi, di patriarcato, di sesso, genere e orientamento sessuale, so che stanno accadendo una serie di cose dentro di me. So che stanno venendo toccati dei temi che mi riguardano personalmente e che si collegano a una cultura interiorizzata che spesso si minimizza ma che invece fa ancora parte delle dinamiche attribuibili al patriarcato, termine non più vecchio e polveroso come qualche anno fa bensì nuovo, pop e fucsia.
Questo concetto non identifica più solo i soliti comportamenti già noti di discriminazione, disparità, etc etc etc.
Ne comprende di nuovi. Più subdoli e meschini che so per certo influenzino anche il mio comportamento nei confronti dell’Altro.
Agiscono in me dei pensieri, delle categorie, comportamenti (mi sto già pentendo di scrivere questo articolo!)
Sono gli stessi comportamenti, pensieri, categorie che scattano (in forme diverse dalle mie perché siamo tutti diversi) nel mio interlocutore maschio.
Però queste forze del male agiscono sia in me che in lui. Non vuol dire che lui non ne sia responsabile ma quello che voglio portare alla luce è una mancanza di consapevolezza. Ho visto così tanti dibattiti su questi temi in cui la rivendicazione dei diritti prendeva una piega così poco conscia e reattiva, che scavalca il pensare e che, per come la vedo io, attribuisco al mancato passaggio e condivisione dell’eredità che ci hanno lasciato le nostre antenate donne.
Come se mancasse ciò che ha distinto proprio quei movimenti a cui si ispirano i femminismi contemporanei. La pratica del partire da sé, l’autocoscienza e la ricerca della consapevolezza di sé e del proprio mondo. È una ricerca, un modo.
Non posso estrapolare dal contesto delle mie emozioni, delle esperienze, della vita la mia reazione.
E non posso non contestualizzare nemmeno in caso di stupro.
Questo non giustifica. Lo ripeto. Serve a comprendere.
Bisogna capire, secondo me. Non solo rivendicare o accusare. O meglio, non bisogna. Lo trovo più utile però.
Capisco allora che quella persona prima di tutto sta mancando di rispetto a un’altra persona. Sta calpestandone i diritti. Capisco che questa azione non lo inquadra come soggetto deviato o come stupratore ma come una persona che sta deviando e che compie uno stupro. Capisco che posso inquadrare e giudicare quel gesto, quell’atto. E in nome di questo giudizio (perché non esiste l’assenza di giudizio, la neutralità, chi lo pensa, secondo me, pecca di nuovo di assenza di consapevolezza o di fraintendimento di ideologie) intervengo, prendo posizione. Ma come?
Se la reazione sociale a questo è di ridurre quella persona all’identità di stupratore, così come a quella di criminale, allora sto collaborando a creare un percorso molto più difficile da invertire: il percorso deviante. Si tratta cioè di innescare un meccanismo che facilita non solo l’etichettamento dall’esterno dell’identità della persona ma anche un auto-riconoscimento della persona stessa nell’etichetta che le viene assegnata. Cosa c’è di più influente del riconoscimento degli altri nella costruzione della propria identità?
Però perché è così necessario etichettare?
È un meccanismo generalizzabile? Personalmente mi interesso di disagio giovanile e questa tendenza è emersa sempre come uno degli elementi del disagio percepito. Il totalizzante. L’etichetta totalizzante, come dinamica problematica della mia generazione (ma ovviamente non solo, però ho studiato quella, state calmi). Mi spiego meglio: nella narrazione che ognuno ha di se stesso alle volte alcune prevalgono. La cosa peggiore che possa capitare è che prevalga un’etichetta negativa. Voglio smettere però di chiamarla etichetta e farò riferimento al concetto di “narrazione” che mi sembra più utile e adatto. Ciò che succede è che la storia di me, della mia vita, del mio percorso finora viene oscurata da questo avvenimento totalizzante per cui non riesco più a pensarmi come altro rispetto a ciò che mi è successo o a ciò che ho fatto. Inizio quindi a identificarmi anche io nella narrazione che gli altri mi hanno attribuito e quella narrazione diventa la mia narrazione tanto che finisco per dimenticarmi che mi era stata attribuita dall’esterno. Secondo questo meccanismo quindi io divento uno stupratore. Non solo. Lei diventa una stuprata.
Facciamo un altro esempio. Io sono Paola, mi piace il verde, amo la matematica ma non vado bene in matematica però sono forte in biologia. Decido quindi di disinvestire dallo studio della matematica e di buttarmi in biologia diventando quindi Paola quella che è brava in biologia. Assumo quindi per me e per gli altri una “narrazione dominante”. Un giorno però, arriva Giuliana che è molto più brava di me in biologia. Quindi ora è lei quella brava in biologia. E io allora chi sono? Dov’è Paola quella brava in biologia? Devo modificare quella narrazione che si rivela essere troppo “netta” e assumerne una diversa che possa co-esistere con questa nuova situazione. Secondo questo meccanismo io soggetto faccio fatica a uscire dall’idea che ho di me per accoglierne una diversa in co-esistenza con la prima. Non riesco a pensarmi come più cose ma devo percepirmi come una cosa sola, ovvero quella brava a scacchi, quella a cui è successa questa cosa nella vita, quella che ha subito uno stupro. Questo, per quanto traumatico mi è anche utile per un certo periodo fino a che, a un certo punto, non diventa un meccanismo rigido. Scatta quindi un meccanismo di prigionia e intrappolamento in quella narrazione: a questo punto, non riesco ad essere altro che quella persona che è brava a scacchi, quella stuprata. Diventa un meccanismo limitante, troppo. Una prigione. Non voglio più essere quella. Voglio essere altro. Ma così è un serpente che si morde la coda. La svolta è quando io rompo il pensiero unico (rassicurante) e posso essere sia quella che è brava a scacchi sia quella che ha subito uno stupro.
Identificarsi in un’etichetta totalizzante: succede qualcosa che va male, esempio stupido, prendo un brutto voto, mi sento una fallita, mi identifico col fallimento, divento una fallita.
Dall’altro lato del tavolo, io psicologa posso davvero aiutare quella donna che ha subito violenza a uscire dalla dinamica relazionale che l’ha porta a rimanere in un contesto di maltrattamento se continuo a rifletterle un’immagine di lei come stuprata e lei come vittima? Come può andare avanti nella sua vita, se questo è? Non sarebbe invece più utile lavorare sulla dinamica, sulla relazione, sul contesto in cui questa situazione è avvenuta? Non per un perdono. Non per forza. Sicuramente però per una maggiore comprensione e di conseguenza per una maggiore possibilità di cambiamento.
Se non so cosa c’è di sbagliato come faccio a non farlo più?
Tante domande poche risposte. Una cosa mi sento di dire però. C’è un processo che ho individuato come recidivo nelle problematiche contemporanee. La difficoltà di accettare la parzialità, il lato negativo, e l’ambivalenza delle cose. Mi sembra lo stesso meccanismo. Il bisogno di un tutto buono e di un tutto cattivo. Perché è più semplice da gestire e da prevedere quindi controllare. Semplifica tutto. Ma sarà un bene?
È una cosa difficilissima su cui lavorare. Però vorrei stimolare questa riflessione in chi legge.