Le differenze esistono, inevitabilmente, da sempre. Non vanno negate, vanno riconosciute, ma soprattutto non devono essere tradotte, nella costruzione sociale, come disuguaglianze e disparità.
E non solo perché ognuno, pur diverso, è portatore degli stessi bisogni e degli stessi diritti ma anche perché, come afferma Chiara Volpato, nel suo importantissimo libro sulle radici psicologiche della disuguaglianza “Le società con minor disparità socio-economiche sono tendenzialmente più sane delle società più disuguali”.
Se ne può concludere che combattere le disuguaglianze sia una forma di cura e una medicina utile all’intera società. Quindi un obiettivo da perseguire per il benessere di tutti.
E’ provato che le disuguaglianze hanno un costo anche collettivo:
. influenzano gli indicatori di salute (minor speranza di vita, maggior mortalità infantile, maggior diffusione di malattie, minor accesso alle cure, più ansia e depressione etc.)
. riducono la possibilità di sviluppo di una comunità (minor accesso all’istruzione, alla cultura, alla realizzazione personale)
. condizionano il clima sociale (più violenza, più divisione sociale, più infelicità).
Ricerche, analisi, studi e dati, dettagliati in modo analitico e critico da Chiara Volpato, sono tutti lì a denunciare, dunque, che le disuguaglianze sono dannose.
Eppure sembra che questa evidenza non porti alle conseguenze che ci si potrebbe aspettare: non nei luoghi che governano il vivere sociale, non da parte dei singoli o dei gruppi che si trovano a vivere lo svantaggio e le sue conseguenze. Tanto più nella nostra realtà contemporanea, nella quale la logica neoliberista che negli ultimi decenni governa l’economia e prevale nella cultura e nella politica, ha avuto l’effetto di aumentare densità e intensità delle disuguaglianze.
Inoltre viversi privilegiati o svantaggiati innesca comportamenti di interiorizzazione e adesione identitaria spesso inconsapevoli e condizionanti.
Il fenomeno, quindi, si articola in tanti ambiti e la comprensione della sua forma complessa, sfaccettata e contraddittoria richiede inevitabilmente un approccio multidimensionale che tenga conto di analisi storiche, economiche e sociali. Molto è stato studiato e pubblicato in questo senso. Sempre più, però e per fortuna, si sta facendo strada, a completamento degli strumenti di analisi consueti, una visione antropologico-psicologica.
Se, come richiama Chiara Volpato, “tutti i processi che coinvolgono l’essere umano hanno un’imprescindibile componente psicologica”, forse è necessario valorizzare a pieno titolo la prospettiva psico-sociale. Non tanto come esercizio intellettuale nell’analisi dei fenomeni o come strumento utile alla gestione del consenso e del potere, ma soprattutto come visione integrata e sistemica che fornisca uno strumento in più per cambiare l’agire sociale e l’azione politica di emancipazione dei singoli e della collettività.
Anche rispetto alle gestione della pandemia la chiave psicosociale offre spunti per riflettere.
Quanto reazioni psicologiche collettive e poco consapevoli di negazione, di paura e paranoia continuano a mantenere bloccati interi processi di cura? Quanto letture e strumenti troppo razionali, linguaggi scientifici astratti e respingenti, impediscono a chi governa e a chi intende curare la costruzione di una relazione empatica ed educativa?
Allora che fare? “È la politica, bellezza” suggerisce nella parte finale del suo lavoro Chiara Volpato. Ma quale politica?
Solo una politica che si ponga con forza il problema della ridistribuzione delle ricchezze ma anche dell’accesso alla cultura e alle conoscenze, che sappia mettere al primo posto la cura delle persone e del loro ambiente, locale e globale, e soprattutto che sappia riconquistare la fiducia dei suoi cittadini per farla circolare anche nella società, può innescare un processo che trasformi il benessere e il profitto di pochi nel diritto di tutti.