Idraulica sociale

Genealogia della Cura: cosa, chi, come, perché? Ma anche dove

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Shibboleth, di Doris Salcedo. Tate Modern Gallery, Londra, 2007

PREMESSA

La Cura è ritornata come sfida, al centro del dibattito politico e sociale con l’emergenza Covid-19, non solo perché strumento necessario per uscire dalla pandemia ma anche perché appare come chiave indispensabile per ripensare la nostra vita e il nostro modo di fare società, dopo lo tsunami virale.

La Cura, anche se ce ne eravamo dimenticati, è una dimensione universale e imprescindibile dell’Umano e in quanto tale categoria fondamentale della vita sociale che si esplicita in ambiti differenti: nei gesti dell’accudimento quotidiano, nelle diverse forme dei legami, nel modo in cui ci occupiamo dell’ambiente e delle cose belle, nelle istituzioni e professioni organizzate in sistemi di tutela della salute e del disagio sociale, ecc.

Ma più che cercare la miriade di esperienze in cui potremmo classificare luoghi e concezioni della cura vorremmo proporre un tentativo di archeologia semantica che ci porti alla radice primaria del suo paradigma e ci permetta di capirne l’uso sociale che si è stratificato nel nostro sistema culturale e nel nostro mondo interno.

Come sempre, per noi di Idraulica Sociale, è importante far riemergere il sommerso, smascherare le strutture culturali e sociali interiorizzate, le contraddizioni del sistema di valori, mandati, miti e gerarchie inconscio e/o implicito stratificato nel campo della produzione culturale e del pensiero dominante in cui siamo immersi.  

Prima puntata

Dobbiamo allora misurarci con alcune domande preliminari a partire da: a quale rappresentazione sociale della cura ci siamo sino ad oggi ancorati? Quale spazio le abbiamo sin qui assegnato?

Sotto agli occhi di tutti ma anche nell’agire quotidiano e nel profondo delle nostre rappresentazioni mentali, la cura, l’accudimento, l’assistenza sono prevalentemente “attitudini e mansioni” declinati al femminile anche quando non sono del tutto contenute nello spazio famigliare, come invece spesso accade.

Tale assegnazione dei compiti della cura (non professionalizzata) al femminile e al privato viene sentita nel senso comune come una “naturale” ovvia continuazione del materno e diventa una scontata complementarietà ai compiti sociali del maschile nello spazio pubblico.

 Non di natura si tratta però, bensì di una progressiva e secolare organizzazione di orientamenti sociali, rapporti di forza, culture prevalenti e scelte politiche, diventati consuetudine acritica.

Una ulteriore domanda potrebbe allora essere: Possiamo rintracciare le variabili sommerse di cui non abbiamo più coscienza, ma che permangono come cause ed effetti fondanti di questo “naturale” posizionamento della cura, per capirne il senso?

Una teorizzazione interessante ce la propone Elena Pulcini, filosofa sociale, proprio a partire dal fatto che nel suo ambito disciplinare, “naturalmente” abitato da grandi menti maschili, la cura è un po’ una “Cenerentola” rispetto ai temi classici indagati dalla filosofia.

A partire dalla modernità, specialmente quella branca della filosofia che si occupa della costruzione e la definizione del Soggetto lo teorizza come Sovrano, ovvero autonomo, libero, che si auto-afferma e difende la propria libertà, i propri diritti e la propria realizzazione. Il soggetto moderno è pensato come monologico-solipsistico e non dialogico-relazionale, orientato alla propria singola emancipazione in cui l’Altro non è in alcun modo né possibilità né condizione per il proprio sviluppo (forse implicitamente solo strumento dunque?).

Come conseguenza, nella rappresentazione di sé, di ognuno di noi, è stata interiorizzata la tendenza a percepirsi e ad anelarsi come “soggetto autosufficiente” che persegue i valori-diritti della modernità, quali la libertà e l’uguaglianza. Non sfugge che della triade introdotta dalla Rivoluzione francese “libertè, egualitè, fraternitè”, la fraternità sia sparita. (Per inciso, forse, non occupava un posto a caso. E averla lasciata in disparte per mantenere autosufficiente il soggetto, ha modificato sia il senso sia la possibilità di realizzare ogni singolo elemento della triade. Una libertà senza fraternità non può produrre uguaglianza. E solo un’uguaglianza fraterna rende davvero liberi.)

Dal perimetro identificativo del soggetto sono dunque stati esclusi tutti i possibili rimandi all’altro, tra cui ovviamente il concetto e la pratica della cura che portano in sé pericolosi spiragli distraenti dalla dimensione di una Potenza autoreferenziale e ideale. Dare cura, ricevere cura sono pratiche reali che implicano un linguaggio inevitabilmente relazionale, opposto a quello monologico che può al massimo includere la cura nell’astratto disegno della cura di sé.

Nella tradizione filosofica illustrata da Elena Puccini è inevitabile che la cura debba essere rimossa dagli ambiti fondativi del Soggetto per antonomasia, delegandola a sue dimensioni “minori” comeil femminile e decentrandola dalla sfera pubblicanello spazio privato, sfera delle passioni e degli affetti, insieme al femminile appunto, che così viene irrigidito e ristretto nella sua generalizzata funzione materna, anche quando figli non ha.

La netta separazione tra pubblico e privato, dei ruoli maschile-femminile organizza anche la netta separazione insita nel binomio egoismo-altruismo: da una parte c’è un individuo proiettato sui propri interessi e auto-realizzazione, forte e produttivo, idealizzato (maschio e auto-centrato) e dall’altro un individuo oblativo, dedito all’altro, sensibile ed emotivo, svalutato (femmina etero-centrata) senza la possibilità che entrambi i generi possano sia integrare le due diverse attitudini sia  occupare con  uguale dignità e potere tanto la sfera pubblica quanto quella privata.

Questa scissione,” naturale”, consueta e resa socialmente necessaria, è in realtà una delle fonti più radicate di discriminazione e disuguaglianza.

Non solo. Se la rappresentazione sociale del benessere (bene-stare) del soggetto in questo mondo, si basa sulla negazione ai suoi stessi occhi di quella parte radicale della sua umanità che lo rende finito, fragile, sensibile, bisognoso e dipendente, il soggetto non può che uscirne apparentemente sovrano ma in realtà inconsapevolmente schiavo di un’idea mutilante della potenza.

L’uomo moderno si sente umiliato se ha bisogno di cure o limitato nella sua libertà se le deve dare.

Immersi e condizionati, dunque, da questo universo culturale e simbolico di cui è intrisa la nostra mente quanto la nostra organizzazione sociale (l’ultima fase neoliberista ne è l’ulteriore prova) potremmo farci ancora una domanda: sarà mai possibile, spinti anche da ciò che la pandemia sta imponendoci, che si possa riabilitare la cura come attitudine relazionale, oltre la sfera privata e oltre la sua designazione al femminile senza accontentarsi di migliorare, per quanto giustamente, solo Welfare e Sanità?

L’unica opzione plausibile sembra essere quella, ardua e sovvertitrice, di ridefinire il Soggetto e le sue qualità fondative. E insieme ad esso il registro semantico della Potenza.

Cosa accadrebbe se gli ideali di Potenza invece che tradurre il bisogno dell’Altro come inadeguatezza, limite, debolezza, prova di fragilità lo accogliessero come misura della propria umanità che apre alla possibilità di scambio, nutrimento e allargamento di sé, base di reciprocità e mutualità invece che di gerarchie competitive?

Si potrebbe scoprire che gli uomini, riappropriandosi della fragilità, invece che perdenti, possono diventare interi. Come nel Tao, vivere il completamento di Sé tenendo dentro la tensione tra forza e debolezza, fragilità e tenacia, ragione e passione, dipendenza e autonomia.

Si potrebbe scoprire che gli uomini re-integrando la fratellanza nella triade rivoluzionaria, riconoscendosi l’un altro, valorizzando il proprio essere sia bisognosi che capaci di cura- da darsi, da dare e da permettersi di ricevere – potrebbero scoprire che è proprio attraversando l’interdipendenza, insita in ogni legame, che si può anelare all’emancipazione e alla vera libertà. Entrambe trovano il loro apice quando appartengono a tutti. Quando in una società di impara a ESSERE CON L’ALTRO, uniti e distinti, diversi nei ruoli e nelle qualità ma tutti con stesso valore e stessa dignità. Libertè, Egualitè, Fraternitè.

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