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Iconografia femminista: statue e rappresentanza

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Con il contributo di Maria Todescato

«La rappresentazione del mondo come tale è opera dell’uomo; egli lo descrive dal suo punto di vista, che confonde con la verità assoluta».1

Simone De Beauvoir nel suo “Il Secondo Sesso” definisce il problema con il consueto modo netto: viviamo in un mondo pensato dagli uomini per gli uomini. Se non fosse così d’altronde non staremmo parlando della mancanza cronica di rappresentazione delle donne persino quando esse sono immobili, letteralmente delle statue.

La vicenda di per sé è molto semplice: a Padova, nella piazza di Prato dalla Valle, la seconda più grande d’Europa, sono presenti 78 statue raffiguranti figure prestigiose, in vari modi collegate alla vita storico-politica, sociale e religiosa della città patavina. Ci sono poi due stalli vuoti, che sono i protagonisti di una mozione presentata dalla consigliera comunale Margherita Colonnello e dal consigliere Simone Pillitteri.

Nella mozione presentata dai consiglieri si invita a dedicare i due stalli vuoti a delle statue raffiguranti figure femminili, perché nell’attraversare la piazza ciò che salta all’occhio, al di là della magnificenza, è la completa mancanza di statue dedicate alle donne. A ben guardare una donna è presente. Si tratta di Gaspara Stampa, poetessa del Cinquecento, il cui busto non ha però una posizione esattamente lusinghiera: si trova infatti ai piedi della statua dello scultore Andrea Brisco. Nello specifico, comunque, la proposta di Colonnello e Pillitteri riguarda l’installazione in Prato di una statua dedicata a Elena Corner Piscopia, prima donna laureata in Italia.

La proposta in sé è tutto sommato molto pacifica, non solo per una questione di rappresentanza numerica, ma anche e soprattutto perché a lungo le donne sono state sussunte, la loro voce cancellata, il loro protagonismo nella Storia troppo in fretta dimenticato e riconoscere ciò non è fatto ideologico ma solo onestà intellettuale e conoscenza storiografica.

Invece di scontato non c’è niente: la proposta è stata ampiamente criticata; nei pseudogiornali che non lasciano dubbi in merito al loro tifo partitico si leggono appelli indignati riguardanti la proposta definita “cafonissima”; si accusano i propositori della mozione di operare in nome della cancel culture, anche se non vi è alcuna proposta di eliminare le altre statue.

Le critiche, però, non si risparmiano da alcun fronte: c’è chi sottolinea che una statua non risolve il problema delle disuguaglianze. Elena Corner Piscopia è stata la prima donna al mondo ad avere conseguito un Dottorato di ricerca, oggi le donne che frequentano un Dottorato sono circa il 51,7%. Un buon dato, che viene però guastato se si guarda all’avanzamento della carriera accademica: nel passaggio da dottorando a professore associato il dato crolla vertiginosamente, e solo il 33% delle donne riesce ad ottenere un contratto da associato, a fronte del 66% degli uomini. Ciò dimostra la tendenza patriarcale, sempre reiterata, ad allontanare le donne dalle posizioni apicali, elemento che si acuisce tanto da sfiorare l’assurdo: in Italia su 84 rettori universitari solo 8 sono donne.

Nonostante la correlazione positiva tra posizionamento della statua e avanzamento delle carriere accademiche delle donne in Italia non esista, la rappresentazione rimane però fondamentale, anche e soprattutto perché toponomastica e statue sono da sempre scelte spiccatamente politiche. Se per distruggere il soffitto di cristallo che rende impossibile alle donne fare carriera servono interventi politici strutturali, il cambio di passo socio-culturale passa anche dall’iconografia che caratterizza le nostre città e gli spazi che viviamo.

Gli Stati Uniti lo dimostrano molto bene: nel pieno delle proteste Black Lives Matters a seguito della morte di George Floyd le statue di coloni e schiavisti statunitensi sono state le prime ad essere abbattute. Si obietta spesso che la questione è solo simbolica, ma i simboli sono da sempre espressioni di cultura dominante, di egemonia e potere. La politica del riconoscimento è basale nell’introiettare una coscienza relativa al proprio ruolo minoritario nella società. Taylor e Habermas sostengono infatti che il legame fra identità e riconoscimento è fondamentale per la costruzione dell’immagine che un individuo ha di sé e che il «misconoscimento può danneggiare ed essere una forma di oppressione»2.

Lo dimostra anche il caso tutto vicentino: la vicenda padovana ha infatti avuto il merito di aprire il dibattito anche nella nostra città, che certo non può vantare grossi primati in quanto alla presenza di statue di rappresentazione femminile. Emblematica, oltre alla penuria in merito registrata, è anche la tipologia di statue che troviamo: l’onnipresente Madonna di Monte Berico – patrona della città – due monumenti dedicati alla figura della mamma e in ultima, una lapide conservata in condizioni decisamente vergognose in memoria di Laura Lattes, insegnante vicentina perseguita dal nazifascismo.

Il campionario riportato dimostra che anche quando la rappresentazione vuole esserci rimane viziata da un pregiudizio di fondo, quello che vuole prima mogli e madri e solo dopo donne intese come esseri completi a prescindere dalla maternità; non solo le statue di donne sono poche, ma la loro rappresentazione è viziata e pregiudizievole. Questo incasellamento porta a dimenticare tutte quelle figure che hanno scelto una strada diversa o parallela, che non sono madri o che magari pur essendolo sono state anche molto altro e si sono distinte per meriti civili e politici.

Non si tratta ovviamente di un problema solo vicentino, nel 2021 la statua della spigolatrice di Sapri è finita al centro delle polemiche perché scolpita seminuda e con le forme ben evidenziate dal lenzuolo che fungeva da vestito. Nella seconda metà dell’Ottocento sicuramente le contadine non indossavano abiti del genere e il misconoscimento torna preponderante, il problema si fa simbolo del male gaze che rappresenta ancora troppo bene il tipo di rappresentazione femminile prediletta.

Il problema ha la stessa radice perché, sia che si parli delle figure scelte o del modo in cui vengono rappresentate, il punto fondamentale è che non si tratta di una raffigurazione veritiera.

Il fatto che la questione della rappresentanza iconografica femminile sia considerata divisiva sembra essere la trasposizione pratica di ciò che De Beauvoir sosteneva settantatré anni fa, ovvero che viviamo in un mondo in cui il maschile predefinito è il metro di misura di tutte le cose, e anche solo la semplice scelta di differenziare il genere delle statue diventa una questione dibattuta sino allo stremo.

1 S. De Beauvoir, Il secondo sesso, Il Saggiatore, 2016

2 C. Taylor, J. Habermas “Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento”, Feltrinelli, 1995

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