di LABIS – Laboratorio Idee per il Sociale
Ma succede anche a voi, guardando un film o una ripresa pre-covid di sentire una stonatura, un sussulto di estraneità, e di avere quasi una reazione di biasimo come di fronte a comportamenti vissuti come anomali? Di percepire come disturbanti quella vicinanza, quella non distanza, quei contatti così facili disinvolti, umani, caldi, spontanei, di bocche nasi corpi braccia, come se foste di fronte a scene incongrue, riprovevoli? è una reazione istintiva, preconscia, che arriva alla coscienza dopo un po’ e a fatica, attraverso un incriccarsi dei muscoli, della pancia, una sospensione del respiro. Perché abbiamo interiorizzato il divieto, e occorre uno sguardo e un sentire attento per accorgersene. è possibile che sia già diventato parte di noi il ritrarsi, il ritirarsi, il timore del contatto, tanto da sembrare sbagliata la fiducia, l’avvicinarsi all’altro, che erano così ovvi, naturali nei nostri gesti quotidiani?
Il corpo, i nostri corpi, possibile fonte di infezione, per paura del contagio sono stati rinchiusi, separati, isolati, limitati negli spostamenti. Non attraversiamo più la strada per incontrare l’altro ma per evitarlo, per tirarsi da parte. Con vicende alterne un po’ schizofreniche non abitiamo più le città, gli spazi pubblici dell’incontro: la chiusura totale in primavera, la bolgia estiva, in cui però molti hanno mantenuto certe attenzioni pur in modo incerto e ambivalente, poi d’autunno le nuove chiusure parziali, le resse del periodo natalizio, e ora, gennaio ’21, le nuove restrizioni. Siamo entrati e usciti dagli spazi collettivi a fisarmonica, e con grande confusione e incertezza delle regole.
Da una parte c’è il corpo nascosto, dall’altra quello esposto agli sguardi pubblici su tv e social, quello delle terapie intensive, dei malati proni, nudi, mucchi di carne che hanno bisogno di ossigeno e di molte cure per sopravvivere, non collegati alla coscienza di esistere, e meno male, sarebbe impossibile reggere i tubi ficcati nella gola. Corpi immolati ed esibiti per l’irresistibile attrazione dei nostri giornalisti verso il sensazionalismo, ma anche per lo scopo di educare, convincere, i riottosi irriducibili complottisti-negazionisti.
Esposto ma celato da camici, guanti, cuffie, visiere, quello dei curanti, dopo un’operazione protettiva che chiede lungo tempo e attente operazioni, e bisogno dell’aiuto di altre mani soccorrevoli per chiudere i lacci sulla schiena. Da cui emergono, nelle foto diffuse quando erano eroi, i segni del martirio, le macchie sul viso, i capelli scomposti e sudati, la stanchezza estrema degli occhi, quella che porta al sonno stremato dell’infermiera sulla tastiera del pc. Un eroismo che dopo l’estate non viene più riconosciuto, ma guardato con fastidio, quasi colpevole, nel clima di complotto che gira in certi contesti, di mantenere la finta pandemia. Negare il virus, negare la pandemia, è l’altra faccia della paura, in alternativa al controllo ossessivo e al rigore nel rispettare le regole. E poi ci sono gli invisibili, i fantasmi dei morti, i corpi portati via di notte dai camion militari, quelli che aspettano il turno dell’inceneritore, quelli mostrati un attimo dentro un sacchetto a un parente che non l’aveva più potuto incontrare da mesi, con sentimenti che possiamo solo immaginare. Non vittime di una guerra tra contendenti, ma anche del fallimento della cura, per ciò che non è stato fatto per tempo, in termini di rispetto dell’ambiente, di prevenzione, di piani epidemici, e di investimento nella sanità pubblica. Certo è naturale la morte, come la vita che ci arriva, ma il numero di queste morti poteva e doveva essere diverso se la cura, la tecnologia, gli investimenti fossero andati al sociale e non al profitto.
Anche i corpi degli adolescenti sono spariti, chiusi in casa davanti agli schermi, alcuni così sofferenti per invisibilità e mancanza di contatti reali, che agiscono la sofferenza ferendo la propria carne, la propria vita, che sentono forse inutile in questo momento senza futuro. Le neuropsichiatrie dell’infanzia e dell’adolescenza, i pronto soccorso, lanciano l’allarme di numeri in aumento.
Ci restano gli occhi per rimanere in contatto, sopra la mascherina che ci sottrae la smorfia, il sorriso, il disappunto, l’interesse. è difficile comunicare senza quella mimica che sarebbe così immediata, così umanamente parte della nostra empatia, e che continua a funzionare invisibile e inutile dietro quel pezzo di stoffa. Con le persone anziane in particolare, per l’udito che tradisce.
Ci mancano le nostre mani ad incontrare. A volte ci viene istintivo protenderle per ‘dare la mano’ come abbiamo sempre fatto, ma poi esitiamo, ci tiriamo indietro, non si può, scatta l’allerta, il con-tatto è pericoloso. Il gesto resta lì sospeso nello spazio tra me e l’altro, interrotto e imbarazzato. Il dare la mano nel nostro mondo occidentale e mediterraneo “è una coreografia della fiducia. È inerme la mano che ne stringe un’altra, non può impugnare armi. E allora dire “piacere” per il nuovo incontro è quasi un rito propiziatorio, metamorfosi dello straniero in presenza grata, così come dirsi “incantati” (come si fa in alcune lingue) rivela che siamo entrati nella sfera d’influenza esercitata dall’altro, nel suo incanto” (Claudia Baracchi). Ci ricorda quando da preadolescenti facevamo le prove con le amiche per ‘presentarsi’, e la cosa era fonte di imbarazzo, di apprendimento, di conquista di un gesto che ci immetteva nel mondo di relazioni sconosciute, più adulte. Mentre da bambini non hai bisogno di presentazioni, inizi a giocare e basta, ti introduci così.
La stretta di mano ci permette di entrare nello spazio personale dell’altro, che è sacro e oltrepassabile solo per mutua intesa. è tenersi, abbandonarsi, sentire in due, perché il tatto è il più reciproco dei sensi, sento e sono sentito, mentre sono solo io che vedo, che annuso. E’ anche il più primitivo, che ci riporta al sentire nell’utero, ai primi abbracci e contenimenti, sensazioni che ci restano dentro per sempre. La stretta di mano ci racconta molto anche di come io e l’altro ci mettiamo in contatto, con intenzione o formalità, con calore o freddezza, disponibilità o ritrosia, evitamento. Informazioni importanti per interagire nella relazione. Mette la pelle a contatto. Parlano le callosità, la morbidezza, la durezza, la tensione, la mollezza, la forza: raccontano di mondi.
La mano carezza il bambino, il compagno, la compagna, il malato, il morente. Le mani sostengono relazioni, legano le generazioni, aiutano a creare passaggi tra questo mondo e l’altro, tra la terra e il cielo, nutrono legami collettivi. Proibito in questo tempo anche toccare. “Siamo ora, nei nostri incontri come nei lutti, a mani vuote. Tra vivi, con i morenti, con i morti, il tocco ci è negato”(Claudia Baracchi). Sentiamo forte la mancanza dell’essere toccati. Quando ci incontriamo con un familiare, un amico, un’amica, dobbiamo far morire l’impulso ad abbracciare, toccare, baciare, e ancora cerchiamo di ristabilire le distanze. Ci resta quello sciocco gesto del gomito, simulacro spigoloso e osseo ben lontano dai nostri bisogni di sentire corpi e calore, che oltretutto mette in relazione i fianchi e non le pance e il petto, luoghi teneri legati al sentire, all’offrirsi in fiducia.
I corpi sacrificali dei pazienti intubati sono invece manipolati da mani professionali che anche se hanno la sensibilità non hanno però il tempo di soffermarsi a dare conforto e vera vicinanza umana. Mancano i famigliari accanto al letto, o gli amici a bagnare la fronte, a fare compagnia, a mettere la mano sulla loro. Si vive di isolamento, di solitudine. E con questo dobbiamo fare i conti, dentro e fuori di noi.