
“I shop therefore I am”, di Barbara Kruger
di Chiara Celoria
Durante la pandemia il nostro approccio all’acquisto è senza dubbio cambiato: il nostro guardaroba si è evoluto verso un abbigliamento comodo e funzionale al fenomeno dello smartworking, l’e-commerce ha avuto un boom senza precedenti, ma siamo davvero sicuri che la nostra percezione del valore simbolico degli oggetti e dell’abbigliamento sia stata modificata?
In questi mesi di particolare immobilità e tristezza derivata dalle limitazioni agli incontri e alla quotidianità mi sono ritrovata, più spesso di quanto vorrei ammettere, a gratificare me stessa comprando vestiti e oggetti. Prima non ero di certo una fanatica di Instagram, anzi tendevo a deprecare la sua carenza di contenuti e il fatto che non fosse altro che una vetrina per gente narcisista. Adesso seguo un numero infinito di pagine di moda e lifestyle, una pletora di influencer che mi propongono creme per il viso, borse, foulard, tappeti, set di tazze, candele profumate a 80 euro e suppellettili d’arredamento che desidero ardentemente pur non avendo una casa mia da arredare. Rabbrividisco nel notare la tecnica di marketing di un brand di gioielli, che sotto la foto di pendenti dorati inserisce come caption “Repeat after me: I deserve this new pair of earrings (Ripeti dopo di me: mi merito questo nuovo paio di orecchini)”, scimmiottando i mantra di una pratica terapeutica. Ma non si è soliti dire “mi merito la felicità”? Evidentemente questa felicità coincide con l’acquisto degli orecchini?
Per curiosità (alla ricerca di spunti per frenare la mia dipendenza) l’altra sera ho guardato su Netflix il documentario del 2016 Minimalism: A Documentary About the Important Things. Il film racconta le vicende personali di Joshua Fields Millburn e Ryan Nicodemus e la loro conversione allo stile di vita minimalista dopo una gioventù spesa alla ricerca sfrenata del successo. La decisione di vivere con semplicità, circondandosi solo degli oggetti essenziali, è guidata dalla volontà di recuperare il senso autentico dell’esistenza e delle relazioni per diventare consapevoli nelle scelte personali, anche in qualità di consumatori. “Amare le persone e usare gli oggetti, non amare gli oggetti e usare le persone” esorta uno degli autori alla fine del documentario (Attenzione ai verbi: usare, non buttare!). Il tema del minimalismo è applicato a vari campi, dalla meditazione alla progettazione di abitazioni, e perciò sono presenti contributi di neuroscienziati, scrittori e altri esperti.
Mi ha colpito molto una frase della sociologa ed economista Juliet Schorr, secondo la quale la nostra società è troppo materialista e allo stesso tempo troppo poco: compriamo beni materiali attribuendo loro un valore simbolico che di fatto non avrebbero se nessuno ci convincesse dello status che incarnano. Contemporaneamente, ci dimentichiamo che la loro “materialità” ha un impatto ben preciso sul nostro mondo già compromesso. A distanza di quattro anni, in piena emergenza globale, siamo ancora materialisti? O abbiamo effettuato una transizione verso il minimalismo?
Ormai sono ben noti i meccanismi di identificazione su cui fanno leva le strategie pubblicitarie per sviluppare abitudini compulsive. Che l’uomo sia programmato per l’insoddisfazione, animato da un desiderio insaziabile e dalla facile tendenza alla noia, lo abbiamo ormai appurato da decenni di capitalismo. La situazione a mio parere si è aggravata con il Covid-19, che ci ha spinto a occupare il tempo prima dedicato a hobby e passioni in altra maniera e a riempire il vuoto affettivo e culturale causato dall’assenza di stimoli. Eppure ci riempiono di slogan secondo cui “la pandemia ci renderà migliori”, rendendo noto che il mondo dell’industria stesso sta approfittando di questo anno sospeso per ripensarsi in chiave più sostenibile e umana.
Il sistema della moda pret à porter al momento è dominato dal “Fast fashion”, termine usato per descrivere capi d’abbigliamento poco costosi ispirati a quelli delle passerelle, disponibili rapidamente nei negozi. Come risultato di questa tendenza, la tradizione di introdurre nuove linee di moda su base stagionale viene messa in discussione. Fino agli anni Sessanta gli stilisti lanciavano le collezioni in quattro stagioni l’anno (autunno, inverno, primavera ed estate), oggi non è raro che i rivenditori introducano nuovi prodotti più volte in una sola settimana per rimanere al passo con i tempi, replicando modelli d’alta moda con materiali di bassa qualità. Adesso si contano ben 52 micro-stagioni. Tuttavia, secondo GlobalData, molti brand stanno cercando di passare dal modello produttivo lineare che consiste nel “prendere-produrre-buttare” ad un processo circolare. Il colosso svedese H&M ha lanciato il suo primo sistema di riciclo capo per capo, Adidas crea una scarpa smontabile e rimontabile, Asos inventa una linea di abiti creati con un solo materiale. E ancora, pare che gli acquisti online di seconda mano abbiano avuto un incremento del 21% in Europa, lasciando intendere che il trend dell’usato di qualità potrebbe soppiantare quello del fast fashion. Neppure la rivendita però, pur essendo una scelta etica, può tutelare l’occupazione e l’economia dell’intera filiera.
Un articolo apparso su The Vision a ottobre 2020 afferma che il Covid-19 ha sferrato un bel colpo al sistema della moda: ha congelato la produttività in Cina e India, principali paesi per l’esportazione del tessile (stando a International Labour Organization, le importazioni sono crollate del 70%), la chiusura delle attività dovuta al lockdown ha causato un deterioramento delle condizioni contrattuali per migliaia di operaie e operai se non il licenziamento, il blocco dei trasporti ferroviari ha impedito gli spostamenti dei migranti interni aggravando la situazione di povertà. In Sri Lanka, Pakistan, Myanmar, Indonesia, India, Cambogia, Bangladesh, in cui operano circa 13 milioni di lavoratori nella produzione di vestiti per l’esportazione, non sono stati ricevuti salari per 1,82 miliardi di dollari. Il tutto favorito di pratiche sleali verso questi fornitori, come richieste di sconti maggiori sugli ordini.
Alcune campagne sono sorte per impegnare i marchi e i distributori a sottoscrivere un’assicurazione salariale ai loro dipendenti. I bersagli principali sono Nike (circa 1,3 miliardi di euro di profitti netti e 325 milioni di euro di dividendi per gli azionisti, +11% sull’anno precedente), Primark (circa 1 miliardo di euro di profitti lordi nel 2020) e, guarda un po’, H&M (2,35 milioni di euro di profitti a novembre).
E noi, ignari, a comprare.