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Ogni studente di giurisprudenza, per non parlare di chi è già avvocato, si abitua presto a sentirsi fare la fatidica domanda: “ma tu uno stupratore lo difenderesti?”. Non ho mai avuto molto imbarazzo nel rispondere. Chiunque abbia un minimo di cultura giuridica può accorgersi che la questione è mal posta: “stupratore”, per lo meno agli occhi del diritto, una persona la sarà solamente alla fine del processo, con una sentenza passata in giudicato. Fino a quel momento ad egli è solo attribuito un fatto che andrà provato. È chiaro che questa è una risposta molto formalistica, dunque a livello emotivo non regge. Allora normalmente rispondo che il processo ha una struttura dialettica: l’eventuale condanna non è che la sintesi tra accusa e difesa, e trova la sua causalità tanto nella prima quanto nella seconda.
Quello che mi interessa non è tanto la risposta, ma piuttosto la domanda. Perché l’esempio che quasi sempre tira in ballo chi la pone è, appunto, la figura dello stupratore. Certo è uno dei crimini più terribili e, come dicono i manuali, “di maggior allarme sociale”. Ma non è l’unico. Da dove arriva questo fastidio che sentiamo nel riconoscere che anche uno stupratore, proprio uno stupratore, ha dei diritti e deve essere difeso?
Non vorrei scomodare l’ormai abusatissima nozione di homo sacer, ma qui è davvero calzante. Lo stupro tocca le corde più sensibili di una comunità e dunque chi lo commette si pone al di fuori dalla comunità stessa, perdendo così i diritti propri degli appartenenti ad essa. Credo sia questo il meccanismo psicologico che scatta. È l’appartenenza a renderti un soggetto di diritto e con lo stupro ne diventi estraneo. Il corpo della donna diventa quindi il confine della comunità – non a caso uno dei crimini che nel mondo romano comportavano la sacertà era proprio il rimuovere le pietre che segnano i confini dei fondi. Non a caso lo straniero, chi è estraneo alla comunità, “viene a stuprare le nostre donne”. Il corpo della donna colonizzato, occupato come un confine difficile da difendere.
Mi ha colpito molto un lungo articolo pubblicato sulla rivista “Menelique”: “Femminismo anticarcerario. Amicizia, stupro, comunità” di Giusi Palomba. Viene raccontata l’esperienza di un collettivo in cui ad un certo punto uno dei leader viene accusato di molestie verso una donna. Già qui la questione è interessante: siamo in un ambiente militante, di sinistra e, almeno a parole, femminista. Lo si considererebbe un luogo sicuro. E invece.
Ma questo è solo l’antefatto. La donna infatti decide di non sporgere denuncia: “non si sarebbe rivolta alle forze dell’ordine, ma pretendeva un’azione collettiva davanti all’abuso”. Si apre così un complesso (anche da un punto di vista emotivo) percorso di rielaborazione che coinvolge non solo l’autore dell’abuso, ma tutto il collettivo.
“Si creò un gruppo di appoggio per lei e anche uno per il mio amico [il ragazzo accusato è infatti un amico dell’autrice dell’articolo, nota mia]. La sopravvivente, l’abusatore e l’intera comunità avrebbero seguito un percorso di riparazione. Sarebbero stati assistiti nel pratico e nell’emotivo, ci sarebbero stati spazi e momenti di confronto con frequenza variabile e poi una condivisione di tutti i passaggi e le valutazioni dei progressi. Per loro era la prima volta, ma avrebbero seguito l’esempio di altri collettivi in città”
Il collettivo coglie appieno la tensione tra l’esigenza di una risposta al reato commesso – non un reato a caso, proprio quello che offende i valori stessi del collettivo, la sua ragion d’essere – con la critica alle istituzioni punitive, che non fanno che alimentare le dinamiche stesse che hanno portato all’abuso. Il paradigma del nostro sistema penale é quello del carcere. Non che il carcere sia sempre l’esito di un procedimento penale, tutt’altro, ma rimane il simbolo su cui è incardinato il sistema punitivo. Il carcere è in primo luogo esclusione dalla comunità: ancora una volta, è qualcosa che traccia il confine. Serve a difendere la comunità dal criminale, separandolo. Eppure sono i delitti connessi con la violenza sulle donne, quelli che più di altri trovano la propria causa nella cultura che si respira nella società. “Lo stupratore non è malato, è il figlio sano del patriarcato” non è solo uno slogan efficace, ma una triste realtà: nel banco degli imputati dovrebbe allora sedere non solamente l’autore del fatto, ma soprattutto la comunità stessa. Invece il diritto penale è incardinato su un meccanismo di esclusione, si preoccupa proprio di segnare il confine tra la comunità e il criminale. Qui sta il paradosso: la cultura condivisa di un gruppo, che è il collante del gruppo stesso, ciò che lo identifica, si autodifende allontanando da sé la sua stessa conseguenza, disconoscendo la radicale manifestazione di sé.
Riportando la questione alla comunità stessa, il collettivo rompe con questo paradigma e si avventura in un territorio inesplorato.
Da giurista, nel sentire questa storia, avverto però un innato fastidio. Faccio fatica a metterne a fuoco subito il motivo ma poi capisco: siamo di fronte ad un diritto penale che non proviene dallo Stato, quasi una contraddizione in termini. La potestà punitiva appartiene esclusivamente allo Stato: è uno dei cardini del garantismo che serve a impedire una “giustizia privata”. Ma è giustizia privata quella del collettivo? L’autrice dell’articolo spiega che il percorso intrapreso non era qualcosa di improvvisato, ma seguiva un protocollo redatto preventivamente dal collettivo stesso semmai sarebbero capitati episodi simili. Siamo davanti quindi ad una giustizia non statuale che non diventa però arbitrarietà. Il protocollo è a tutti gli effetti diritto vigente all’interno di una collettività (che non coincide con lo Stato). Un diritto di comunità.
La riscoperta di un diritto di produzione non statuale, ancorato alla comunità anziché alla sovranità, è una tendenza ormai consolidata negli studi giuridici (per chi vuole approfondire, un nome su tutti: Paolo Grossi). Però la discussione rimane quasi solamente sul diritto privato, avventurandosi quasi mai sulle questioni penalistiche. Si tratta di un terreno ovviamente molto più scivoloso e ambiguo, ma penso valga la pena di approfondire un discorso di questo genere.
Credit photo: ilMessaggero.it