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NON RESPIRO.

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di Edoardo Ferrio

Nell’articolo che avevo promesso alla “riunione redazionale”, avevo detto che avrei trattato un argomento totalmente diverso. Avrei dovuto parlare dei collaboratori sportivi in tempi di Covid-19 e spiegarvi una serie di dinamiche che stanno rallentando i nostri bonus del governo e il fatto che molte persone (alcune molto più di me, che faccio parte della categoria) siano con l’acqua alla gola per molteplici motivazioni. Giuro e spergiuro che tornerò sulla questione la prossima volta, ma non si poteva lasciar correre. So che quello che seguirà è un panegirico abbastanza lungo e magari anche complesso, ma cerchiamo di mettere insieme i pezzi per arrivare al punto a cui vorrei arrivare. Premetto anche che, non sapendo le vostre conoscenze di sport in materia, per alcuni di voi certe informazioni contenute in questo pezzo potrebbero essere pleonastiche.

I fatti sono ormai noti: la scorsa settimana, a Minneapolis, Minnesota, USA, un afroamericano di nome George Floyd è morto mentre veniva arrestato dalla polizia. Chi era George Floyd? 46 anni, guardia di sicurezza in un ristorante latino americano chiamato Conga Latin Bistro, una persona assolutamente nella norma con un lavoro normale, una casa normale e un mutuo normale. Nella giornata di lunedì 25 maggio, un fruttivendolo chiama la polizia perché il signor Floyd sta cercando di pagare con un assegno falso. All’arrivo delle forze dell’ordine, questi oppone resistenza e alla fine viene bloccato a terra dai poliziotti. Fino a qui, non c’è assolutamente niente di strano: reato volontario, errore di negligenza, tentata truffa, o qualsiasi altra ragione avesse spinto Floyd a cercare di pagare con un assegno falso non è sotto esame. Lo sarebbe, lo potrebbe essere, se fosse arrivato in centrale e avesse avuto la possibilità di difendersi normalmente e regolarmente, per essere poi rilasciato o mantenuto in centrale, assolto o condannato da una corte di giustizia. Ma George Floyd non è mai nemmeno salito nell’auto della polizia, perchè è morto sull’asfalto di Minneapolis a causa di una violenza dello stesso poliziotto che l’ha arrestato. Questi ha infatti soffocato Floyd schiacciandogli il collo a terra con il ginocchio, tra i lamenti straziati e strazianti della vittima. Il tutto sotto gli occhi delle videocamere degli smartphone dei passanti, che hanno immortalato il momento. Dalla roca e strozzata voce della vittima si sente solo una frase: “I can’t breathe”, io non respiro.

Qual è il punto che però mi urge toccare in questo momento? Non è tanto il fatto, che non merita nemmeno commenti da quanto brutale e orrendo risulti, perchè ritengo che questo non sia nemmeno in discussione. È un esercizio futile parlare del reato commesso da Floyd come trovo altrettanto pleonastico condannare la forza bruta esercitata dalla polizia nei confronti di un comune cittadino che ha commesso un reato minore: do per scontato che queste cose non debbano succedere ed evidentemente, vista la reazione che sta avvenendo in tutti gli Stati Uniti da parte della popolazione, direi che in linea di massima al di qua e al di là dell’oceano siamo d’accordo. A farmi riflettere piuttosto, anche per deformazione professionale, sono le reazioni che sono arrivate in seguito al fatto da parte degli afroamericani, nello specifico degli sportivi e, successivamente, riflettere su quello che noi identifichiamo come comunità e come vogliamo che siano queste comunità nel nostro futuro.

Nel marasma di contraddizioni alla base sociologica del loro Paese, gli americani hanno sviluppato una certa coscienza civile, dettata dalla loro storia di colonia inglese e proseguita successivamente con le questioni razziali (questo per ridurre la questione a due righe, anche se penso che non basterebbe una collana in dodici volumi per riassumere la cosa alla perfezione). Ad essersi eretto per primo come critico e osteggiatore della forza esercitata dai poliziotti nei confronti del povero Floyd non è stato il presidente Trump, ovviamente, ma nemmeno Obama.

È stato invece uno sportivo, Lebron James, senza ombra di dubbio il miglior giocatore di basket del mondo. Lui per primo ha condannato il gesto. Questo cosa c’entra con noi? Ci arriviamo, ma dobbiamo continuare a prenderla alla distanza.

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Un paio di settimane fa, parlando del pluri-acclamato documentario di ESPN The Last Dance dedicato a Michael Jordan, io e il mio amico Massimiliano Chirico, geniaccio francavillese che col fratello e gli amici è noto in tutta la Puglia per l’organizzazione di tornei sportivi, siamo finiti a parlare dell’annosa questione che attanaglia tutti gli appassionati di basket: Michael Jordan o Lebron James? La risposta a questa domanda, per quanto possa sembrare non c’entri niente con noi, in realtà capita a fagiolo. Discorrendo del tema, e precisando che io sono un jordaniano e lui un lebroniano (neologismi che sembrano più consoni a razze aliene che ad appassionati di basket), siamo poi arrivati alla conclusione che da un punto di vista cestistico Jordan è l’apice assoluto ma che Lebron aggiunge alle sue qualità da sportivo una componente umana gigantesca. Dove Jordan era schivo, riservato, dedito al proprio piacere personale (anche se negli ultimi giorni pure lui si è unito al coro), Lebron s’impegna e si batte per i diritti della sua comunità e in generale degli oppressi.

Nel 2016, assieme ai colleghi Carmelo Anthony, Dwyane Wade e Chris Paul (insieme i quattro sono conosciuti come il Banana Boat Team), James ha pronunciato un discorso passato alla storia sul loro ruolo di sportivi afroamericani. Il riassunto è “se vogliamo essere degni eredi di Muhammad Alì e di tutto quello che lui ha fatto per noi, dobbiamo raccoglierne l’eredità con l’impegno e la voglia di dare una mano e di supportare i più deboli”. E questo citando anche altri grandi nomi come Jackie Robinson, Jesse Owens, Tommie Smith, John Carlos, Kareem Abdul-Jabbar e gli altri grandi sportivi neri della storia a stelle e strisce. Cito testualmente quanto detto nella stessa occasione dal suo collega Carmelo Anthony: “Il sistema è rotto, i problemi non sono nuovi, la violenza non è nuova, e di sicuro la questione razziale non è nuova, ma l’urgenza di cambiare ha raggiunto un livello talmente preoccupante che non possiamo più ignorare la questione”.

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Il loro intervento, che ebbe luogo ai premi annuali di ESPN, gli Espy’s Awards, trovò grandissima risonanza nella comunità sportiva, con gli afroamericani in testa. Non a caso, nel giro di qualche mese, a seguito anche dell’elezione di Donald Trump a presidente degli Stati Uniti, è poi iniziata la protesta degli “inginocchiamenti” nella NFL: i giocatori di colore, capeggiati da Colin Kaepernick, allora quarterback dei San Francisco 49ers, iniziarono ad inginocchiarsi durante l’inno americano antecedente le partite. Simbolicamente, l’atto rappresentava il rifiuto a onorare un paese nel quale l’oppressione dei neri era ancora così marcata ed evidente. Per far capire quanto la questione sia spinosa, Kaepernick è senza squadra dal 2017 e pare abbia costretto la NFL a risarcirlo di una cifra compresa tra i 60 e gli 80 milioni di dollari per aver osteggiato il prosieguo della sua carriera. Il patteggiamento è stato finalizzato in un accordo privato, quindi non sapremo mai quali sono stati i termini precisi del risarcimento.

Va anche sottolineato come, da quando Trump è presidente, le squadre di pallacanestro rifiutino sistematicamente gli inviti della Casa Bianca a ricevere i formali saluti destinati ai campioni in carica. Un’altra presa di posizione contro una certa America, che tende a ignorare le necessità delle sue comunità. In questo momento, diversi giocatori afroamericani e non sono in piazza a manifestare con i loro concittadini: Jaylen Brown, dei Boston Celtics, ne è un esempio, ma lo è anche Kyle Korver, che invece è bianco e che un anno fa in un bellissimo articolo chiamato “Privilegiato” uscito su The Players Tribune ha preso durissime posizioni contro il razzismo. Se volete leggerlo, trovate il link a fondo pagina.

Altro esempio, quasi inquietante. Nel 2014, sempre i giocatori NBA scendono in campo prima delle partite con una singolare t-shirt da usare nel riscaldamento. Su questa semplice maglietta nera campeggia una scritta bianca in Comic Sans che dice “I can’t breathe”, io non respiro. Le stesse parole pronunciate da George Floyd prima di morire.

Perchè è questa l’oppressione: il sentirsi di non respirare, l’essere sopraffatti, bloccati. E non respirare è un concetto che prelude alla morte fisica, perchè la cessazione di quella funzione involontaria che nella nostra vita siamo sempre in grado di fare fino, per l’appunto, all’ultimo respiro.

Ora, proviamo ad estrapolare il concetto fornitoci dagli sportivi afroamericani, sportivi pagati milioni di dollari all’anno, e proviamo a tradurlo da noi. Inutile sottolineare le differenze che ci sono a livello comunitario e sociologico tra Italia e America, perchè finiremmo inevitabilmente con l’arenarci. Tuttavia, non siamo esenti da episodi di razzismo. Senza scomodare il solito Mario Balotelli (che c’avrà pure gli zebedei pieni ad essere continuamente tirato in ballo sulla questione sport e razzismo), cito un fatto di cronaca meno noto: lo scorso 30 novembre, nella partita di calcio tra le squadre juniores di Sporting Pianorese e Airone 83, vinta da quest’ultima per 4-0, un attaccante di colore realizza una tripletta. Il ragazzo mi perdonerà se non ne riporto il nome, ma non sono riuscito a reperirlo. Sul sito Tuttocampo, bibbia calcistica open source, un dirigente, o un genitore o semplicemente un tifoso della Pianorese arrabbiato per il risultato finale, anziché riportare il nome di battesimo dell’attaccante scrive per tre volte una sola parola: “Negro, Negro, Negro”. Se la notizia vi è sfuggita non preoccupatevi: con una veloce ricerca online vi renderete conto che, per quanto all’epoca fosse stata riportata da quasi tutti i maggiori quotidiani nazionali, ad oggi l’unico media con grande risonanza del quale trovate facilmente l’articolo è “Il Fatto Quotidiano”.

Questo intanto ci permette di dire che, se mai vi fossero venuti dubbi, pure qui dovremmo iniziare a farci delle domande sul razzismo. Non è di certo l’unico problema e l’unica discussione che dobbiamo affrontare in Italia, penso soprattutto al mondo del lavoro, dove tra le migliaia di persone che lavorano a rimborsi spese, nel sommerso, in nero o a contratti a tempo determinato, esiste una percentuale di precari da far accapponare la pelle. In generale, il futuro sembra troppo spesso nebuloso (anche in questi giorni successivi al virus sembra spesso nebuloso) e, non so voi, ma il pomeriggio in cui “Non riesco a respirare” mi capita più spesso di quanto vorrei. A pensare di vivere in un Paese dove omofobia, razzismo e questioni lavorative sono ancora vere e reali, mi sento come se mi mancasse il respiro. E allora dove sto andando a parare? Come dicevo, sulla reazione.

Perché, piaccia o meno il cestista Lebron James, non possiamo discutere sull’uomo. Che crea scuole, dà supporto agli orfanatrofi, ha fatto sentire tantissimo la sua presenza nella sua città natale Akron, in Ohio. Fa di tutto perché crede che le nostre comunità debbano migliorare, debbano fare passi in avanti; perchè il sistema, la nostra società, per essere cambiata, deve ricevere segnali forti. E chi meglio di una persona in piena vista, che catalizza su di sé tantissime attenzioni, che ha gli occhi di tutto il mondo puntato addosso. Astraiamone la figura e cerchiamone un epigono italiano, che ci faccia sentire la sua presenza. Non so voi, ma faccio fatica a percepirlo.

Spesso, tendiamo a liquidare gli sportivi che intervengono su questioni legate alle nostre comunità; quanto spesso sentiamo dire la frase “pensino a giocare”? Quante volte loro stessi, gli sportivi, evitano di toccare questioni legate al lavoro, al razzismo, al nostro Paese. Ecco, a me questa teoria del “sono un professionista, penso a giocare” ha rotto abbastanza le scatole, non la trovo più una motivazione sufficiente. Ogni volta che indossi una maglia, che rappresenti il tuo Paese con la divisa della nazionale, che scegli di giocare in una città piuttosto che un’altra fai una scelta comunitaria. Non è solo questione di professionismo. Lo sarebbe se poi la tua attività non coinvolgesse diverse parti della comunità, ma questo accade di continuo: la squadra è una comunità, lo staff tecnico, e poi anche i tifosi, la città. Un mero discorso sul professionismo non può bastare ad esentarsi dalle questioni che la riguardano. Non si tratta nemmeno, non necessariamente, di lanciarsi in discorsi ed impegno politico, perchè il tema qui è la società civile e lo sporcarsi le mani in prima persona. Avere persone che sono al di sopra di noi come status sociale, come modelli, come risonanza nelle cose che dicono è già di per sé pesante ma lo diventa ancora di più se queste persone sembrano non curarsi minimamente di quello che gli sta intorno. Se invece ambissimo ad avere una società di virtuosi, ad avere dei Lebron James che nei momenti in cui siamo in difficoltà sono pronti a spremersi e a difendersi contro le ingiustizie che patiamo quotidianamente, non ci sentiremmo più forti? Non ci sentiremmo meno soli? Se per certi versi stiamo già sprofondando nelle peggiori ipotesi di Adorno, Horkheimer e Mills sull’atomizzazione della società e sul nostro forsennato individualismo, avere segnali forti che ci invitino a farci forza, che ci facciano capire che le nostre preoccupazioni sono accolte e condivise anche da chi magari ha una vita più facile della nostra, che ha l’empatia e la sensibilità per sostenerci non solo moralmente ma anche materialmente, non renderebbe il tutto non dico più semplice, ma perlomeno meno aberrante dal continuare a pensare che noi, in fondo alla scala sociale, condividiamo solo tra di noi queste preoccupazioni?

In sostanza, stringendo il tutto ad un singolo quesito: chi sarà il nostro Lebron James la prossima volta in cui non riusciremo a respirare? E non si tratta di trascurare quanto succede in America (trovo infatti lodevoli le iniziative dei calciatori europei che si stanno facendo fotografare inginocchiati, in campo e fuori), si tratta semplicemente di sapere che non siamo soli a combattere le nostre battaglie.


RIFERIMENTI:

Kyle Korver, privilegiato:
https://www.theplayerstribune.com/en-us/articles/kyle-korver-utah-jazz-nba

Colin Kaepernick su Repubblica
https://www.repubblica.it/sport/vari/2020/06/01/news/morte_floyd_protesta_in_ginocchio-258185362/

Pianorese – Airone 84 sul Fatto Quotidiano
https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/12/02/razzismo-segna-un-gol-nella-partita-juniores-il-tabellino-modificato-con-la-parola-negro/5590408/

Il discorso di Lebron James e Carmelo Anthony agli Espy
https://time.com/4406289/lebron-james-carmelo-anthony-espy-awards-transcript/

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