
di Chiara Celoria
Nel 2020, mentre Vicenza si trova ad accogliere la proposta di un piano di salvataggio del suo centro storico, ricorre il sessantesimo anniversario della Carta di Gubbio, documento approvato all’unanimità in seguito al Convegno Nazionale per la Salvaguardia e il Risanamento dei Centri Storici, promosso da un gruppo di Comuni italiani e sostenuto da studiosi e parlamentari. Prima di allora non solo la necessità di tutelare questi luoghi non era riconosciuta a livello nazionale, ma non era stata nemmeno delimitata una nozione di “centro storico”, il che rendeva difficoltoso procedere con una ricognizione sul territorio, e ardua l’applicazione di principi generali per il risanamento e la conservazione delle zone a rischio. Dal 1960 divenne cruciale inserire queste operazioni nei piani regolatori comunali, a testimonianza di un ampliamento del concetto di tutela nell’ambito del diritto dei beni culturali: prima l’attenzione era riservata solo a complessi monumentali di riconosciuto valore storico e artistico, mentre le parti in cui tale valore non era individuato erano abbandonate al loro destino, vittime dei mutamenti imprescindibili del tempo, dei cambi d’uso, delle demolizioni e ricostruzioni, dell’adattamento alla mobilità veicolare. Su questa base la normativa di settore produsse, in alcune regioni, tutele specifiche di piano paesaggistico associate ai centri storici individuati sulla base di carte ottocentesche.
Per un Paese come l’Italia è stata una conquista fondamentale riconoscere che la città è una struttura complessa, il cui cuore deve essere distinto dagli altri organi (seppur interdipendenti) per la particolarità dell’insediamento e del tessuto che lo costituisce, racchiudendo palazzi e monumenti di comprovato interesse. È indubbio che i centri storici debbano essere oggetto di interventi e politiche ad hoc, che mirino a valorizzarli dal punto di vista urbanistico e sociale, soprattutto in un momento in cui la minaccia dello spopolamento, dell’omologazione, della gentrificazione e del turismo di massa si fa sempre più presente. Ma fino a che punto problematizzare la riqualificazione delle città attraverso il decoro delle loro aree pedonali? Porre l’enfasi su una sola porzione del tutto rivela una visione estremamente limitata del problema-città.
Vicenza già risente di una mentalità ancorata ai fasti del passato, restia a diversificare l’offerta culturale perché fissa con lo sguardo alle testimonianze del Palladio. Si pensa che il debito verso il passato possa essere ripagato soltanto imbellettando le vie dello struscio (magari con l’inserimento qua e là di statue di dubbio gusto attribuite a Dalì, non radicate nel contesto, né frutto di alcun progetto sensato di arte pubblica) ma – citando le parole di Salvatore Settisad un convegno del 2019 sul tema del rilancio dei borghi e dei centri storici italiani – “l’erosione della memoria storica delle città è già cominciata dalle periferie, uguali dappertutto e quasi dappertutto straripanti e invadenti. Le periferie delle città italiane sono tra le più brutte d’Europa, ma sono di fatto, quantitativamente, il maggior contributo architettonico del XX secolo italiano: inutile rimuovere dalla coscienza questo dato indubitabile ricorrendo a distinzioni pretestuose come quella fra “architettura” ed “edilizia”. La crescita urbana, in quanto legata a movimenti demografici, a nuove prosperità, a nuovi assetti sociologici (come l’instabilità e la frammentazione dei nuclei familiari) era non solo necessaria ma fatale; ma non fu né fatale né necessario che avvenisse con una qualità costruttiva ed estetica così costantemente miserevole. Lo diamo talmente per scontato che abbiamo totalmente rimosso un punto essenziale: costruire periferie di assai miglior qualità era non solo genericamente auspicabile, ma operativamente possibile.”
Inutile porre l’accento su un centro storico dichiarato Patrimonio UNESCO quando fuori dalle mura viene condotta un’attività edificatoria scellerata, insostenibile dal punto di vista ambientale (esempio mirabile ne è l’ecomostro del nuovo tribunale di Borgo Berga lungo una delle principali vie di accesso alla città) ed esteticamente sgradevole.
Come coniugare le azioni di tutela dei centri e delle periferie con le esigenze dei cittadini che desiderano vivere in una città moderna?
Nonostante sia doveroso ribadire l’attualità della dichiarazione di Gubbio, la storia e i processi di urbanizzazione che hanno generato squilibri nell’allocazione della ricchezza economica testimoniano che una netta separazione tra le parti che compongono l’agglomerato urbano potrebbe non rivelarsi fruttuosa. Anzi la tendenza alla differenziazione sembra oggi aver ceduto il passo all’idea di città diffusa, in cui alla periferia tradizionalmente intesa come ritaglio delle espansioni residenziali dovute ai fenomeni di crescita demografica del secolo scorso, può sostituirsi la nuova periferia, esito di un modo di “vivere territorialmente”, spazio di vitalità e inclusione oltre che di consumo.
Secondo questa definizione, che osserva la progressiva diffusione a macchia d’olio delle abitazioni, delle aree di produzione e dei servizi come un trend positivo, la periferia cessa di essere un contesto svantaggiato e diventa potenziale promotore di cultura e sviluppo, se le amministrazioni locali sono in grado di cogliere questa opportunità.
In un altro contributo al convegno citato in precedenza e promosso dalla rivista Finestre sull’Arte, Giampaolo Nuvolati, ordinario di Sociologia dell’Ambiente e del Territorio presso l’Università Bicocca di Milano, afferma che “la salvezza dei centri storici sta nella valorizzazione delle periferie; sta in un maggiore riequilibrio tra i quartieri, nella possibilità di sgravare il centro di alcune funzioni per portarle nelle zone più esterne”, purché esse non vengano trattate alla stregua di depositi di infrastrutture ingombranti e i servizi restino adeguatamente distribuiti.
Esiste un’ipocrisia di fondo nel far proliferare supermercati nelle aree suburbane e contemporaneamente voler mantenere competitivo il commercio al dettaglio localizzato nel centro. Il cosiddetto commercio di qualità subisce uno spiazzamento rispetto alla grande distribuzione: molte persone orientano i loro acquisti in questi format di grandi superfici non solo per convenienza economica o per l’ampiezza degli assortimenti o per facilità di raggiungibilità di queste aree con i propri mezzi di trasporto, ma anche in quanto tali luoghi divengono i nuovi spazi della socializzazione e non solo dell’acquisto. È per reazione che i centri storici in taluni casi assumono logiche protezionistiche.
I cittadini ormai comprendono che lo spazio in cui abitano è dinamico e che malgrado la conformazione storicamente monocentrica di molte città, il futuro è proteso verso il policentrismo, anche grazie alle crescenti vie di comunicazione. Questa soluzione non si dimentica del proprio patrimonio da custodire, bensì abbraccia la dimensione della connessione e dell’integrazione. Vicenza può essere la culla per una nuova Carta, che non superi quella di Gubbio ma la completi: alla salvaguardia e il risanamento dei centri storici affianchiamo urgentemente un Rinascimento delle Periferie. Da questo assunto non può che partire la Carta di Vicenza.