Un fotogramma dal film “Tra le nuvole” (Up in the Air, 2009) di Jason Reitman
Ci viene detto che dobbiamo essere gli imprenditori di noi stessi, a prescindere da chi siamo o da cosa facciamo. Seguendo l’analogia, le nostre stesse vite vengono poste in perenne competizione l’una con l’altra: ciascuno di noi può affermarsi unicamente primeggiando e poi mantenendo quella posizione, il fallimento degli altri va a beneficio di chi vince. Il ricorso frequente al modello dell’impresa in svariati ambiti del discorso non fa che disvelare scenari inquietanti sulla società in cui viviamo, sui rapporti che intercorrono tra noi, su quello che è lecito dire e quindi si è liberi di fare. Tutti contro tutti e si salvi chi può.
Ci viene detto che bisogna sapersi vendere bene e noi lo accettiamo. Irradiamo dai social media versioni edulcorate di noi stessi, messaggi positivi privi di qualsiasi asperità, presentiamo il nostro successo personale come se le nostre vite fossero delle aziende. Ci viene detto che siamo tutti dei professionisti, che facciamo tutti parte del ceto medio e che dal nostro benessere dipendono l’andamento dell’economia e le sorti del Paese. Ci viene detto che tutto ha un prezzo e che tutto va messo in commercio e consumato, persino le emozioni. Ci viene detto di fare in fretta, perché ogni prodotto riporta una data di scadenza, che sia un contratto di lavoro o una relazione affettiva.
Ci viene detto e noi accettiamo, scorrendo con le dita qualche app per incontri occasionali, preoccupandoci per la nostra carriera e non per le persone attorno a noi, a volte nemmeno quelle che vediamo ogni giorno. Meglio pensare solo al proprio brillante futuro, a fare colpo sul capo di turno; l’idea di avanzare una rivendicazione collettiva, in una lotta per migliorare la vita a tutti (e quindi anche al singolo, di conseguenza), risuonerebbe quantomeno balzana. Ci viene detto tutto questo e altro ancora, ma sempre la stessa solfa, che siano conduttori televisivi o giornalisti, calciatori o affermate dirigenti. Sono frasi che fanno capolino anche a tavola, in famiglia, confrontandosi con storie del passato, conversando con amici o colleghi: in mezzo a un mare di problemi si trova solo la forza di ripetere quelle frasi come valide soluzioni.
Tutto questo funziona perché esprime pienamente la cultura dominante del nostro tempo, lo spirito del capitalismo, un sistema fondato sulla mercificazione e sull’instaurazione di gerarchia, sullo sfruttamento. Ripiegando unicamente l’attenzione sulla nostra individualità perdiamo qualsiasi riferimento alla dimensione collettiva dell’esistenza; concentrandoci solo su noi stessi trascuriamo gli altri, ci dimentichiamo che assieme possiamo cooperare ed essere una comunità: in tanti fronteggiamo le stesse problematiche, pur declinate in vario modo, e numericamente siamo in molti contro pochi privilegiati.
Le restrizioni legate alla pandemia, in questi mesi, hanno reso evidente quanto viviamo isolati già di nostro, con la possibilità di incontrare altre persone solo per lavoro o nei luoghi di consumo. Diffusi da ben prima che il COVID-19, il nostro isolamento auto-imposto, o l’incapacità di pensare e agire insieme, sono attitudini e comportamenti che lasciano inalterate le enormi disuguaglianze economiche, sociali e politiche caratteristiche del nostro tempo. Rimaniamo impotenti e spesso inermi rispetto a chi sta più in alto di noi, non li combattiamo, anzi magari singolarmente sogniamo di essere uno di loro, come i protagonisti di un reality in cui ti fanno vivere da ricco e potente per un giorno o una notte.
In questo modo il capitalismo vince sempre: i suoi valori del «si salvi chi può» vengono normalizzati nella nostra quotidianità, nel momento in cui le relazioni mercantili vengono naturalizzate nelle nostre vite. Prima ancora che leggendo un libro, veniamo educati su come comportarci, su come stare al mondo, seguendo il modello individualista e possessivo di chi comanda. Prima ancora che si disputi qualsiasi elezione, gli oligarchi hanno già vinto perché accettiamo i loro valori, giochiamo sempre nel loro terreno di gioco. Improntiamo le nostre giornate sul modo di comportarsi che ritengono giusto, che fa loro comodo.
Accettiamo quei valori, ma ne vediamo le storture. Ben pochi credono davvero al discorso ufficiale sulla meritocrazia o sul successo individuale. Spento lo smartphone, i problemi persistono. Tutti hanno delle resistenze personali alla mercificazione totale, tutti conoscono esperienze di sfruttamento. Ci si adegua alla cultura dominante perché non se ne scorgono altre all’orizzonte. Non si ha notizia di un soggetto organizzato con l’intento di rovesciare lo status quo, eliminando le disuguaglianze e creando un nuovo ordine. Non è una visione che contempliamo nella nostra vita quotidiana, non è una possibilità presa in considerazione, non vi improntiamo le nostre scelte. Non è qualcosa di cui si discute spesso o liberamente nei media. Ci risulta più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo, come nei film o nelle serie. Del resto, quanto spesso ci imbattiamo nella rappresentazione di eroi collettivi?
Proprio su questo ci vogliamo soffermare: che mondo ci propinano i media, che siano notiziari o forme di intrattenimento in senso stretto? È il mondo in cui comandano i proprietari di quei media, di quelle piattaforme: come dicevamo, il loro modello non ha bisogno di vincere le elezioni, viene affermato ogni volta che ci mettiamo davanti a uno schermo. Non in pochi, a sinistra, condividono queste riflessioni sulla necessità di contrastare il mainstream mediatico e non a caso l’esperimento a tal riguardo più compiuto che conosciamo proviene dal Paese maggiormente associato al capitalismo contemporaneo, gli Stati Uniti.
Continua…