Gramsci

Quale orizzonte?

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Come si cambia il mondo? Come si cambiano le nostre vite, le vite di chi ci sta intorno? In una democrazia rappresentativa, come si stabiliscono nuovi rapporti sociali che valgano a prescindere dall’esito delle successive elezioni? L’ex vice-presidente boliviano Álvaro García Linera e il politologo spagnolo Íñigo Errejón dialogano sul senso comune delle persone, sul ruolo dello Stato e sulla sua capacità trasformatrice, dall’esperienza latinoamericana dei governi del cambiamento a quella europea di lotta all’austerity, in questo estratto dal loro recente libro “Quale orizzonte. Egemonia, Stato e rivoluzione democratica” [Qué horizonte. Hegemonía, Estado y revolución democrática. Madrid, Lengua de Trapo, 2020].

AGC: Quando un processo travolge le strutture politiche, una parte del tuo senso comune si è rotto. Per questo, dicevamo prima, deve sempre avvenire una rottura morale delle resistenze. Qualsiasi processo rivoluzionario è una scissione dolorosa: qualcosa si è rotto in te, in quello che pensavi, in quello in cui credevi, in quello che accettavi. Non vi è fatto rivoluzionario che non vivi come un dolore. Può essere gratificante, chiaramente, però internamente qualcosa si è rotto. Una parte del senso comune è andato in frantumi e sì, chiaramente, lo vivi, assieme agli altri che ti accompagnano, come un piacere collettivo. Questo è il momento della catarsi. Per questo tutto ciò che è rivoluzionario è fondamentalmente un fatto emozionale. Però c’è un pezzo del tuo mondo che non presenta ancora crepe, e che resiste al frantumarsi, il giorno seguente alla catarsi o alla vittoria elettorale, e che ti tiene ancorato al mondo di prima.

È d’altronde vero che questo senso comune attraversato da crepe può espandersi ad altri spazi. È il caso della Rivoluzione d’Ottobre e delle mobilitazioni per i diritti delle donne. La rivoluzione ha talmente tanta forza che finisce per penetrare parte del senso comune più sedimentato, di decadi o secoli di dominazione sulla donna. Nel momento in cui, però, l’estasi collettiva inizia a stemperare e raffreddarsi si producono anche momenti di ripiego in cui si corre il rischio che, se i risultati pratici dello sforzo emotivo, del tuo sforzo personale, del tuo sforzo materiale per ottenere un cambiamento sociale non trasmettono un minimo lascito, il risultato può essere quello di tornare ancora più indietro del punto di partenza.

Risulta molto facile che tale senso comune ripiegato possa essere adulato da politiche ultraconservatrici. Non sarà semplicemente una ricostruzione del vecchio senso comune, bensì un’esacerbazione delle componenti più conservatrici, più reazionarie, più individualiste, più fantasiose, più egoiste. In parte, questo aiuta a capire quanto accaduto recentemente in Brasile.

IE: Assolutamente. Da parte mia, da tempo rifletto sull’idea di irreversibilità relativa, ovvero che i cambiamenti apportati dai governi progressisti possano sopravvivere a quegli stessi governi, che questi cambiamenti sedimentino nella loro società. Me lo immagino soprattutto per cambiamenti capaci di produrre un’altra antropologia, un’altra relazione con gli altri, con il pubblico e il privato. Quanta capacità riconosci alle istituzioni, a un governo, per produrre dall’alto condizioni istituzionali che in basso generino altri comportamenti? Perché le leggi si possono cambiare, senza dubbio, arriva un governo e te le trasforma, però le forme di relazionarsi con lo spazio pubblico, tra di noi, non si trasformano in quello stesso momento.

In positivo, mi sovviene l’esempio del matrimonio egualitario qui in Spagna: fu realizzato da un governo di centrosinistra con un’opposizione conservatrice molto aggressiva e, nonostante il blocco conservatore volesse abrogarlo, una volta giunto al governo non poté. Non poté, in primo luogo, perché non poteva farlo giuridicamente: non si può annullare il matrimonio di persone già sposate; in secondo luogo, il matrimonio egualitario si era già naturalizzato nella società, nelle serie tv, nei film… Le nuove generazioni si sono abituate al fatto che ci siano matrimoni tra uomini e matrimoni tra donne. L’esempio negativo, che già abbiamo commentato, è il caso della pianificazione urbana: qui a Madrid l’altro giorno ero con un’associazione di genitori in difesa delle scuole pubbliche. Nei nuovi quartieri non si costruiscono più strutture pubbliche, questi quartieri producono di conseguenza residenti che non hanno luoghi di incontro pubblico, che si sono abituati a recarsi nelle scuole private, che non hanno una piazza, che devono usare l’auto in ogni caso. Una decisione amministrativa come «qui non ci sarà una piazza, ma un centro commerciale», «qui non ci sarà una scuola o un centro civico, ma un’altra autostrada ancora», queste decisioni producono un tipo di relazione sociale che è relativamente irreversibile. È anche possibile che alcuni di questi residenti votino per candidati progressisti, tuttavia la loro forma di relazionarsi con la città rimane e rimarrà segnata per decenni da un piano dell’avversario. Secondo la tua esperienza di governo progressista e rivoluzionario, quanta importanza attribuisci al fatto che dall’alto, dal governo e dalle istituzioni, si producano canali che de-mercificano e che pertanto sostituiscano la frammentazione con comunità civica, generando comportamenti pubblici e non esclusivamente privati che contribuiscano a produrre un nuovo ordine che, in definitiva, è una nuova quotidianità, una nuova antropologia? Perché se mi immagino l’irreversibilità, me la immagino così, non solo come resistenza della gente a favore delle conquiste del governo popolare o progressista, ma soprattutto come abitudine sviluppata per cui i boliviani nati cinque anni fa si relazionino di maniera distinta con i propri simili, con la città, con lo spazio, con le istituzioni o con il funzionario, rispetto a come si relazionavano i loro genitori. Tutto ciò per effetto di trasformazioni decretate – per usare un’immagine polemica – dall’alto e non dal basso. Quelli che descrivevi prima non cessano di essere processi di costruzione di una comunità molto forte che irrompe e produce un cambiamento politico dal basso, però non credi che a volte possa operare alla rovescia, che un governo progressista con le proprie decisioni ricrei o ponga le condizioni perché si ricostruisca la comunità?

AGL: Apprezzo la tua riflessione, legata alla tua preoccupazione per l’inerzia della struttura amministrativa e burocratica dello Stato in qualunque società moderna. Se il senso comune che ha permesso un’irruzione istituzionale è profondo, parte di tale senso comune modificato rimarrà impregnato nelle istituzioni come norma, come legge, come riduzione delle scadenze, come disposizione amministrativa e finanziaria per fare un insieme di cose. In questo senso, lo Stato si rivela come fluido nuovamente e, nella misura in cui passa l’impeto sociale, questo fluido torna un’altra volta nella sua materialità, la lava si raffredda e agisce quasi per inerzia, automaticamente, in quella direzione.  Sostenevi che questo ha aiutato a frenare attività neoliberali e sicuramente quando un governo progressista non è più in carica, se ha realizzato cambiamenti istituzionali di grande rilievo, parte delle cose fatte si manterranno come senso comune, un risultato, una conquista della società stessa.

IE: Come qualcosa di tutti.

AGC: Per quanto nulla sia irreversibile, nemmeno il tempo lo sia, sarà molto più difficile da invertire con una struttura istituzionale che ha sedimentato nel senso comune con risorse, norme, procedimenti, trasmissione di saperi, resistenze sociali e morali. Qualcosa si converte in un diritto, la sanità, l’educazione pubblica… e non è irreversibile, però più difficile da invertire. E quando cade il governo progressista, uno può dire «quella burocrazia contro cui combattei a suo tempo, perché rappresentava il vecchio regime, ora sarà la mia trincea difensiva». È un bene che esista questa inerzia, perché mi concede tempo per ricostituirmi da qui alla nuova ondata politica di cambiamento tra qualche anno. Se lo Stato non è uno spazio dal quale potenziare e rafforzare diritti e associazionismo, allora perché andare al governo? L’idea diffusa per cui non si cambia il mondo attraverso lo Stato, che è meglio dedicarsi alla propria comune macrobiotica e ai propri libri di artigianato, perché è il mio ruolo al mondo… tale idea trascura il fatto che lo Stato, nonostante la rigidezza, la condensazione, la dimensione paradossale e sempre contraddittoria tra decentralizzare/concentrare, democratizzare/monopolizzare, irradiare/riunificare, possiede un ambito di potere e di influenza sociale molto potente, perché influisce sul senso comune, monopolizza buona parte del senso comune per quanto logicamente lo riceva in eredità. Ha la possibilità di monopolizzarlo, di tornare a dargli una direzione. Un governo progressista, conoscendo la difficoltà di prendere uno Stato di cui si ereditano alcuni procedimenti, norme, senso comune, risorse e resistenze dal vecchio regime, permette inoltre, per l’impeto con cui arriva, di realizzare cambiamenti, trasformazioni, congelare qualcosa e stemperarne un’altra, potenziare altre dimensioni. Se devi stare lì, torniamo alla domanda di prima: cosa fai quando la gente ripiega dall’universale al locale e ti lascia aggrappato solamente al tuo gruppo di compagni benintenzionati e progressisti? Te ne vai o rimani in attesa che giunga la nuova ondata progressista da qui a cinque, dieci, quindici o vent’anni?

IE: Rimani in attesa, creando le condizioni adatte.

AGL: Proprio così. In questa transizione devi sforzarti, altrimenti non saresti progressista, che le decisioni da te promosse, le attività fomentate e le risorse concentrate abbiano l’obiettivo non tanto di creare comunità, dal momento che la comunità è sempre una creazione sociale, bensì di agevolare la creazione di comunità. Ritengo che lo Stato non crei comunità, ma che la faciliti. La comunità deriva sempre da un atto della gente, un atto di associazionismo, però lo Stato può collocare una muraglia lì, o può creare uno spazio più amichevole, più praticabile per creare comunità, dando vita a spazi pubblici.

IE: Crei i canali perché sia possibile.

AGL: O puoi disporre una delimitazione dello spazio che sia aggressivo per la comunità, che la ostacoli anziché agevolarla.

IE: È appassionante perché si concretizza in cose molto semplici.  Per molti anni nella città e nella comunità autonoma di Madrid le scuole pubbliche erano aperte al pomeriggio perché si svolgessero attività culturali o di svago da parte di associazioni di residenti o di genitori. Questo faceva sì che lo spazio fosse al mattino una scuola pubblica e al pomeriggio una sorta di centro culturale e civico della comunità, creato intorno. Una decisione amministrativa molto semplice, nemmeno presa da un ministro, bensì forse da un vicedirettore generale dell’educazione, fa in modo che le scuole pubbliche non possano aprire fuori dall’orario delle lezioni – decisione poi chiaramente annullata fin dal primo momento con la giunta di Manuela Carmena a Madrid. Ogni volta presto maggiore attenzione a queste decisioni che apparentemente sono solo amministrative, ma che fanno sì che un quartiere abbia come nucleo la scuola oppure no, che la scuola possa fungere da centro civico irradiante, come cooperativa di consumo, come sede di un gruppo per le escursioni in montagna al sabato, o luogo in cui i ragazzi formano un gruppo musicale dal momento che possono provare nell’aula di musica al giovedì pomeriggio… quando invece si chiude la scuola al pomeriggio cessano di esistere il resto delle attività. È vero, lo Stato non crea comunità, però può rendere più agevoli i suoi canali e i meccanismi di costruzione e ampliamento.

AGL: Di questo mi resi conto in Messico, in una città che mi risultava molto aggressiva da adolescente. Le vie erano quasi di un chilometro, non vedevi finestre ma solo monumenti in cemento. Era stata pensata per dinamizzare il lavoro e la segmentazione della società stessa. Come ti riunirai in quel quartiere quando la via è lunga un chilometro, hai un muro di cemento e la piazza dista 7 km? Che spazio trova l’associazionismo? Lo svolgerai sul posto di lavoro, ma non nel quartiere, che è pensato per le auto e la fabbrica di cemento, non per la possibilità di raggruppare persone. Insomma, se progetti un nuovo quartiere con un centro in cui metti lo shopping, il mercato, l’area ricreativa per i giovani, uno spazio verde… è la stessa decisione burocratica, però una sta creando condizioni materiali più favorevoli all’associazionismo, all’incontro faccia a faccia, e nell’altro caso sta creando le condizioni per l’alienazione. In conclusione, cosa fa un governo progressista amministrando lo Stato? Crea le migliori condizioni per l’ampliamento dei diritti, le migliori condizioni per fare comunità.

Nella foto: a sinistra, Íñigo Errejón (Madrid, 1983), politologo spagnolo, studioso del pensiero di Ernesto Laclau e Chantal Mouffe, fondatore del partito Podemos e poi di Más País. A destra, Álvaro García Linera (Cochabamba, 1962), sociologo boliviano, guerrigliero del Movimiento Indígena Túpac Katari, imprigionato dal 1992 al 1997, poi professore universitario e infine vice-presidente della Bolivia dal 2006 al 2019.

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