Idraulica sociale

Reggere l’incertezza e l’impotenza del tempo Covid – Ci salveremo insieme.

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Al posto delle prossimità abbiamo il corpo virtuale. Ci si vede via Skype, Zoom, Meet, tramite i pixel, che a volte traballano, per cui si appare e si scompare allo sguardo. “Il corpo della virtualità è un corpo-quarzo, smaterializzato, che esiste solo grazie alla tecnologia. Al corpo-quarzo corrisponde lo svuotamento dello spazio pubblico. La socializzazione e la socialità si spostano dai luoghi fisici che abbiamo conosciuto finora a piattaforme virtuali” (Francesca Capelli). Non si può toccare, non scambia respiri, aliti, odori, sapori. Si vede e si ascolta solo. La vista è il senso che usiamo ancora più di prima, dal momento che gli altri sono tagliati fuori. Attraverso la tecnologia ci ritorna il corpo, ma svuotato, ricordandoci la sua mancanza. Si inneggia entusiasti alle nuove possibilità di lavorare in smart working, da casa, anche a fine pandemia. Tutti belli isolati davanti a uno schermo, monadi produttive. Ci ribelleremo a questa prospettiva? Vediamo che ha offerto delle possibilità in uno stato di restrizione, ma ci si chiede se diventando generalizzata modalità di vita e di lavoro, non porti all’estremo la tendenza all’individualismo e al consumo eccessivo di tecnologia digitale, tipici di questo tempo culturale.

          Abbiamo scoperto invece che oltre l’abbuffata liberal-tecnologica c’è ancora una materialità di cui abbiamo bisogno, lavori concreti, fisici, corporei, apparentemente umili, che fanno andare avanti il mondo, come quello dell’idraulico che opera con “l’esperienza e un bel po’ di tentativi ed errori”, come dicevamo in uno scritto precedente su Fornaci Rosse. I rider sfidano la pioggia per portare fisicamente il cibo a chi sta a casa, nuovi sfruttati che offrono un lusso pagato nulla. E poi i lavoratori stagionali che raccolgono i prodotti della terra, i contadini, ma anche i medici gli infermieri gli operatori sanitari lavorano con la propria presenza, con i propri gesti, il proprio corpo. La cura è relazione, presenza, solo eccezionalmente può essere virtuale.

E poi c’è lui, il minuscolo essere incorporeo, straniero e  nemico, che si è intrufolato nei nostri corpi e nelle nostre vite stravolgendoli. Il covid alieno interroga le nostre società e gli stili di vita, disvelando e rinforzando tendenze e fragilità che già c’erano. Ha messo in luce l’allentamento dei legami sociali, la prevalenza dell’individuo sulla comunità. Ha scardinato l’idea che possiamo avere un controllo totale sulla realtà, ci costringe a mettere in discussione l’iperefficienza, ci chiede di essere umili nei confronti della conoscenza, di lasciare spazio al dubbio, di accettare anche l’ombra, l’inquietante, il diverso, il non conosciuto. Ci dice anche che dobbiamo tornare a includere la naturalità della morte nella visione della vita, evento ineluttabile che per molto tempo abbiamo pensato di poter estromettere dalle nostre esistenze, esorcizzandolo col godimento perpetuo, negandolo perché così stridente con il narcisismo che ci vede tutti vittoriosi e di successo nella narrazione ufficiale. Rivedere i nostri limiti. Forse ci aiuta a mettere in luce anche la nostra perdita di contatto con il sacro, con il mistero della vita, che non è solo materia.

Ci sembra che in questo tempo di pandemia il mondo che conoscevamo sia travolto dal caos. In questi giorni migliaia di persone in Europa scendono di nuovo in piazza arrabbiati e senza mascherina negando il virus e reclamando la vita e la libertà. Molti anche tra i sanitari rifiutano il vaccino, che mentre è presentato come una salvezza messianica da istituzioni e media, è vissuto forse come un’invasione del proprio libero arbitrio, un’intrusione nel proprio potere di controllo (Recalcati). Viviamo l’impotenza, anche di fronte allo sfascio politico di questi giorni (Renzi & C.).  “Questo è il tempo dell’impotenza. Sono nel buio gli scienziati, sono nel buio i governi, siamo nel buio tutti…..La nostra estraneità all’ombra e al buio ci rende ciechi e impauriti, scrive Paolo Mottana, occorre invece abituarsi a muoversi nell’ombra e recuperare il senso del limite”. Ecco, dobbiamo tollerare la nostra impotenza, il non sapere, l’incertezza, cosa piuttosto difficile in un tempo in cui sembrano prevalere l’onnipotenza, l’autosufficienza, il controllo. Con i nostri corpi reclusi, separati, con la chiusura degli spazi collettivi, con la quantità di notizie contradditorie che ci invadono, cosa succede alla nostra mente, che abita in sinergia e in dialogo la nostra realtà fisica? La psiche fa fatica a reggere e integrare le vicissitudini di questo periodo, l’incertezza, la perdita di credibilità degli esperti e della medicina, il vero il falso le polemiche le fake la paura le morti i numeri vaccino si vaccino no la perdita economica il dolore e la solitudine delle persone, il dramma di chi ha le attività bloccate da un anno nella ristorazione, nell’arte, nel teatro, nella musica, nel turismo. Siamo affaticati e teniamo duro, usando il nostro corpo e la nostra mente per capire, interpretare, riflettere, distinguere, e desiderare. Immaginare insieme un mondo diverso, dove la diversità non sia disuguaglianza ed esclusione, dove il vocabolario della cura prenda il posto di quello di predominio e di guerra per la supremazia, territoriale, culturale, economica. Cercando di capire cosa sta succedendo mentre succede, in un periodo che già era segnato dagli epocali cambiamenti degli ultimi decenni, in cui fatichiamo a trovare una bussola.

Ci salviamo insieme agli altri, accettando la nostra fragilità, quella dei medici, del governo (anche se un po’ di stabilità politica ci avrebbe fatto comodo),  ricostruendo comunità e solidarietà in un contesto non di competizione ma di cura. Questo forse è il grande insegnamento che questo virus microscopico e invasivo ci sta dando, mettendo a nudo le contraddizioni di un sistema che non si cura di tutte le persone ma del libero mercato, che tiene aperte le attività produttive e non quelle culturali, che sfrutta gli esseri umani e  la natura fino allo stremo per un globalizzato interesse economico di pochissimi. Le crisi possono essere quindi grandi opportunità di cambiamento. Dobbiamo continuare a costruire pensiero, e non solo reagire alla minaccia.

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