
Un fotogramma dalla quinta stagione della serie tv “The Wire” di David Simon (USA, 2008)
Un giornalista ha risposto alla lettera che alcuni ragazzi dell’istituto Montagna hanno scritto al Giornale di Vicenza dopo l’articolo che riportava di un’aggressione a un dipendente di Svt da parte di qualche ragazzo, e che il giornale stesso nel titolo ha definito “baby gang”. Qui lo scambio per intero:
Nei giorni precedenti, pare che il pubblico avesse reagito nell’area commenti della sua rubrica, oltre che con critiche con insulti. Il che ha portato l’autore a scrivere un intervento in cui depreca l’offesa digitale e chiede che si torni a toni meno avvelenati, anche per il bene della costruzione delle notizie.
Il giornalista ha ragione, non è bello ricevere insulti e in generale tale pratica nuoce al dialogo. Al contempo, però, egli derubrica gli insulti semplicemente come un’espressione di inciviltà; è un procedimento sicuramente molto comodo: è un modo, a mio parere superficiale e pericoloso, per tracciare una linea ed esentarsi dalle proprie responsabilità ponendosi al di fuori dell’interazione e reclamando una posizione di oggettività; il rischio è quello di squalificare le ragioni altrui. Cosa intendo dire con questo? Intendo dire che, come lui invita chi lo insulta a pensare alla possibilità che invece avrebbe di costruire un dialogo, allo stesso modo mi viene da invitarlo a chiedersi il perché di quegli insulti; tacciare qualcuno di inciviltà è una tattica che impedisce di vedere che l’insulto è una reazione a un’azione, della quale, in questo caso, lui è corresponsabile; in un certo qual modo, forse anche un suo articolo è stato insultante per qualcuno, e l’offesa non è altro che una risposta, per quanto irragionevole e offensiva. Anche leggendo la sua risposta alla lettera dei ragazzi ci si sente impotenti, perché la costruzione del testo non lascia adito a nessun’altra possibilità se non quella dell’etichettatura imposta dal giornalista e dal suo giornale, mentre il tentativo di dialogo viene frustrato da lui stesso.
In questo testo cerco di mostrare perché a mio avviso la risposta del giornalista possa, solleticando un sentimento di impotenza, generare rabbia.
In sintesi, essa nasconde un messaggio paradossale: all’accoglienza dichiarata delle parole dei ragazzi si mischia una distanza paternalistica che denuncia l’esatto opposto. Inoltre tracima di moralismo a discapito di logica. E questo è un problema, non solo per l’argomentazione dell’autore, ma perché dietro il moralismo si nasconde sempre una posizione che pretende di essere naturalmente legittima, mentre non giustifica la propria postura. Il messaggio paradossale, e la posizione moralista, oltre all’evidente disparità tra lettore e giornalista nella possibilità di esprimere pubblicamente un pensiero (il secondo ha un giornale dietro di sé), finiscono per far sentire chi legge impotente e in gabbia. Per finire, fa rabbia perché si ha l’impressione che non rispetti molto i lettori del giornale, e punti il dito su questioni che non sono prioritarie, tralasciandone altre che invece lo sono. Insomma, dietro un’apparenza di democraticità, moralità e accoglienza, si cela invece la solita stigmatizzazione, portata avanti con procedimenti un po’ sofistici.
A parte il fatto che sono un poco ossessivo – mi scuserete per la prolissità spero- credo valga la pena soffermarci su questo aneddoto locale in quanto può forse insegnarci qualcosa di più su svariate questioni: il funzionamento di alcuni meccanismi dei media e il loro ruolo oggi, la maniera in cui si crea opinione tra le persone, ma soprattutto il come una percentuale di soggetti, in questo paese, di cui il giornale sembra far parte data la sua modalità comunicativa, propugni un certo clima culturale e intenda il vivere in società.
Veniamo alla risposta del giornalista. Ecco l’esergo:
Partiamo dai giornali. Voi dite: spesso vengono usati termini esagerati che generalizzano. Io rispondo: obiezione accolta. A volte noi giornalisti siamo vittime di una forma di pigrizia e per raccontare la realtà ci affidiamo a parole o formule collaudate, che abbiamo già usato e con le quali ci siamo fatti capire dai nostri lettori: sono luoghi comuni della nostra lingua e della nostra cultura, dentro i quali stiamo comodi come si sta comodi su un divano. Le parole sono i ferri del nostro mestiere, ma il nostro è il mestiere più bello del mondo (non sto generalizzando, sto solo esprimendo la mia opinione) proprio perché non dovrebbe mai rimanere uguale a se stesso, dovrebbe evolvere come evolve la realtà che vorremmo raccontare.
All’inizio della sua risposta l’autore dice di accogliere l’obiezione per l’uso di termini generalizzanti ed esagerati, come baby gang. Con una valida giustificazione, si potrebbe accettare l’errore commesso; ci si aspetterebbe poi che questo meccanismo venisse abbandonato, ma non è questo il caso come si vedrà. Invece, in un tentativo di autoassoluzione -in fondo non sbagliamo tutti noi, esseri umani? – l’autore scrive che l’uso del termine è dovuto alla pigrizia. Allora, nel momento in cui si scrive un pezzo o si inventa un titolo, non si ha in fondo a che fare con una cosa seria che ha delle pesanti conseguenze? Mi viene da pensare che uno, se sta alla sega circolare, non può sempre stare sveglio e preoccuparsi delle dita. O non è che se invece di amore scrivo amorte, perché m’è scivolata dalla tasca una consonante in più, in fondo cambia qualche cosa. E dov’è l’immagine del giornalista, impegnato per se stesso e per la collettività, cane da guardia della democrazia? È un peccato che la stampa si riduca al mettere alla gogna. E non mi rassicura per nulla sapere che l’accuratezza nel lavoro sia insidiata dalla voglia di pigiama.
Poi aggiunge che baby gang rientra nell’uso giornalistico dei “luoghi comuni della nostra lingua e della nostra cultura”, con cui ci si fa a suo dire capire dai lettori. Tralasciamo l’ovvio fatto che baby gang viene dalla lingua inglese. In primo luogo, mi sembra, più che farsi capire, con l’uso di termini quali baby gang o altre espressioni simili si rischia di ingarbugliare maggiormente la questione, invece di aumentare la chiarezza sugli accadimenti. Se è una banda di giovani dediti ad azioni criminali, che lo si scriva senza paura per quel che è, circoscrivendone così il significato. E poi come lettore del giornale non mi sento molto rispettato: oltre a informarmi in modo poco accurato, ho l’impressione che mi si dia anche un pochettino dell’ottuso, visto che pare si pensi non riuscirei a capire la questione se non mi si parlasse con termini utilizzati nel loro senso comune più retrivo, il cui intento non troppo surrettizio è quello di stigmatizzare e creare sconcerto, magari raschiando ripetutamente il fondo del barile delle paure della gente con logiche da capro espiatorio.
Si potrebbe anche disquisire dell’uso che l’autore fa del concetto di lingua e di cultura, ma mi preme maggiormente concentrarmi sull’aggettivo “nostra”. Mi spiace, ma questa è una bell’e buona usurpazione, un’ennesima generalizzazione che l’autore si permette, per rendere auto evidente, naturale e ovvia qualche cosa che proprio non lo è, e mascherando così la sua opinione dietro una pretesa di universalità. Non si tratta qui di una lingua o una cultura propria degli Italiani, o dei lettori del giornale. Questi peraltro non costituiscono una comunità reale, come invece si vorrebbe sottintendere. E’ semplicemente la manifestazione del suo punto di vista, o di una parte sola del consorzio sociale. Non è la nostra, ma la sua autocelebrantesi visione del mondo, della cultura e della lingua; è sempre il medesimo vizioso meccanismo. Sono luoghi comuni del suo linguaggio e del suo modo mistificante di intendere le cose. Mistificante perché? Pigrizia o non pigrizia, questa è una scelta editoriale. E non si sceglie un titolo del genere così tanto per fare, ma per vendere, forse, mi viene da pensare a questo punto. O anche se il lucro non è l’aspetto dominante, si afferma nel contempo, anche se inconsapevolmente, un’idea particolare di società, di che vuol dire vivere con gli altri. Il linguaggio non è semplicemente una neutrale traduzione in parole dell’esistente, ma è un potente strumento creatore di realtà.
C’è una scena nel film “Palombella rossa”, una delle più citate del cinema italiano, che descrive bene questa pigrizia: il protagonista, interpretato da Nanni Moretti, si ribella alle domande di una giornalista (ops…) e dopo aver ascoltato una incredibile sequenza di frasi fatte, stereotipi e anglicismi, esplode in una celebre invettiva: «Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti». Voi vi ribellate all’uso dell’etichetta “baby gang”: da un lato mescolerebbe senza fare distinzioni frutti buoni e mele marce, dall’altro avrebbe innescato un’escalation che avrebbe indotto a schierare l’esercito per episodi che ritenete modesti rispetto ad altre emergenze. Non sono un agente di polizia, né un assessore o un funzionario della prefettura, però voglio fidarmi di voi e del vostro punto di vista.
In questo paragrafo, l’autore cita una scena di un film di Nanni Moretti, Palombella rossa. Egli si dimentica però di informarci che nel film la giornalista si becca anche due ceffoni dal protagonista, esasperato dal suo modo di parlare. Forse è solo una questione di memoria, o una vocazione pedagogica del giornalista, che giustamente non crede che la violenza fisica sia un buon modo di risolvere le cose e anzi la rifiuta. Per quanto mi riguarda uno schiaffo metaforico e ideale ogni tanto può essere d’aiuto per qualcuno.
Il giornalista dichiara di avere fiducia nei ragazzi, quando essi mettono in luce che baby gang è un’espressione che fa di tutt’erba un fascio e che avrebbe contribuito a spingere il Comune a chiedere l’esagerata presenza dell’esercito. In men che non si dica, però, nel paragrafo seguente contraddice ciò che ha appena affermato:
E per questo vi faccio una proposta: dimostrate di avere ragione. Avete a cuore il vostro spazio di libertà e socialità in un tempo cupo come quello che ci è toccato attraversare? Dimostrate che avete a cuore anche la bellezza della città e la libertà degli altri frequentatori del parco. Ma soprattutto difendete la vostra libertà da chi la mette in pericolo. E coloro che la mettono in pericolo non sono i militari o i poliziotti, al contrario: sono gli autori dell’aggressione all’autista del bus, sono i vandali che hanno demolito la staccionata del parco o che abbandonano bottiglie, lattine e altri rifiuti sulle panchine e sull’erba, sono i vostri coetanei che si danno appuntamento per regolare a calci e pugni certi conti in sospeso, sono gli spacciatori che continuano a vendere la loro merce nonostante il grido di dolore di un’intera città. Come dite? Sono solo poche mele marce? Ottimo, sarà ancora più facile. Rilancio: dimostrate che avete ragione voi, isolateli, tracciate un confine tra voi e loro, mettete quella giusta distanza che può aiutare tutti, anche noi giornalisti, a distinguere e a non generalizzare. Dimostrate di essere la meglio gioventù: anche questa è una formula collaudata, ma suona decisamente meglio di baby gang, dico bene? Giuro che farò il tifo per voi, perché difendendo la vostra libertà difenderete anche la mia.
Infatti, invece di dare ai ragazzi la fiducia asserita, chiede loro di dimostrare di non essere colpevoli o conniventi, di dimostrare la loro estraneità, di difendersi e distinguersi dagli spacciatori, dai vandali e da quelli che insozzano gli spazi; evidentemente agli occhi del giornalista c’è qualcosa che ancora li accomuna a questi. Voi siete colpevoli fino a prova contraria, dice loro. Questo il grado di accettazione e accoglienza della parola dei ragazzi e delle loro critiche al giornale. È come se io chiedessi a lui, che riveste un importante ruolo pubblico, di dimostrarmi che non fa festini a base di cocaina con il peggio della classe dirigente o della vicenzabene, o pretendessi che mi dimostrasse che non è un corrotto; o come richiedessi a un pescecane di dimostrarmi che non sa abbaiare, visto che è cane pure lui. Non vedo proprio che c’azzecchi. Ancora una volta, egli mette in atto un meccanismo di creazione di un insieme non reale ma immaginato, quello dei giovani, dotato per essenza di attributi non proprio positivi. Sarebbe invece lui a dover dimostrare in che modo i ragazzi autori della lettera c’entrino con i vandali del parco e con gli spacciatori, non viceversa. Oppure, in fondo, per il giornalista, il problema è solo che gli spacciatori a Campo Marzo si vedono, mentre quelli di cocaina per i ricchi non danno troppo nell’occhio? Spero non sia questa la questione.
Poi, ovviamente, non poteva mancare il riferimento al vecchio e abusato parolone, libertà.
Non credo che la minaccia alla libertà stia veramente in coloro che deturpano i parchi, o negli spacciatori. Certo, entrambe le azioni, il deturpare e lo spacciare, sarebbe meglio non esistessero. A Campo Marzo comunque nessuno spacciatore mi ha mai impedito niente. Casomai, ciò che mi ha impedito di vivere e godere del parco è la pletora di divieti riguardanti ciò che è possibile fare in quello spazio; è una lista talmente lunga che non so più se questo risponda ancora alla definizione e alla funzione di parco pubblico, o non sia piuttosto un prezioso oggetto d’antiquariato da tenere dentro una teca o magari nel tepore di una stanza di museo. Forse è proprio per questi divieti che quel parco non viene vissuto dalla cittadinanza, e vi prosperano così i malavitosi. Forse bisogna ribaltare la questione.
Sono ben altre le cose che tolgono libertà: per esempio un lavoro precario, mal pagato e svilente e con degli orari improponibili, o l’erosione dell’accesso egualitario a diritti fondamentali, come l’educazione e la salute, di qualità e per tutti, mentre oggi questo è sempre più riservato a chi è ricco e gli altri cavoli loro. Certo, questi non sono problemi risolvibili immediatamente da un ragazzo delle superiori, non è il loro mestiere. Ma alcuni di questi punti toccano anche loro. Usare la parola libertà, in sintesi, in quest’occasione suona un tantino demagogico ed esagerato; limitiamone l’uso alle cose importanti.
A proposito di libertà, ad esempio, mi stupisce che nessuna parola venga dedicata dal giornalista al processo di desertificazione che questa amministrazione, in linea con le precedenti, sta facendo degli spazi pubblici, e al menefreghismo imperante che vige riguardo alle politiche giovanili. In fondo i ragazzi, nella loro lettera, dichiarano il bisogno di uno spazio pubblico, perché di andare nei locali non va loro, specie con il Covid, o magari perché come molti adolescenti i soldi in tasca non li hanno. Forse però non è una mancanza, ma egli è invece d’accordo con queste tendenze.
Lo dimostra con la richiesta che fa di isolare quelle che chiama mele marce. Come per l’uso della parola baby gang, egli ci ripropone ancora l’idea che la complessità di un fatto possa essere ridotta ed essenzializzata da un’etichetta. Egli riesce a distinguere senza titubare, e le sue categorie preconfezionate lo aiutano a ridurre in lembi la complessità del reale. Una mela, quando è marcia, non si recupera ma si butta, non c’è riscatto possibile. Forse dopo un anno di pandemia e di distanziamento sociale, “isolamento” è l’unico concetto rimastogli tra le mani. Si sa che la parola, il dialogo, lo scambio, i processi di inclusione, non servono, o sbaglio? E poi, perché egli non prende in considerazione che la responsabilità di tale stato di cose – ammesso che questo sussista nel senso urlato dal giornale – sia anche in parte del Comune, della sua indifferenza nei confronti delle periferie e più in generale degli spazi culturali di aggregazione giovanile, che anche quando funzionano vengono minacciati di chiusura? Forse lui in certi luoghi non ci mette piede, e non ha per nulla il polso di quale sia la situazione per i giovani della città.
In chiusura, il giornalista consiglia ai ragazzi, se non vogliono essere conniventi, di aiutarlo: isolando le famigerate mele marce, anche lui stesso riuscirebbe a meglio intendere la questione. Allora anche io potrei permettermi di dargli un consiglio: che si alzi dal divano e che si isoli lui, magari salendo su in cima a una colonna come farebbe un monaco stilita, chissà mai l’aria fresca non gli giovi alla meditazione sulle parole professate; così anch’io potrei riuscire a distinguere meglio la realtà, nell’assenza di qualcuno che crea solo confusione intellettuale. Però non mi sento di darglielo questo consiglio; non è nelle mie corde questo modo di agire sulle cose, e penso che la soluzione possa trovarsi per altre vie; credo anche che le persone possano cambiare, e non sia così facile categorizzarle. Alla fine egli sembra dire: tornerò a fare il mio mestiere come si deve se anche voi mi darete una mano, se voi ragazzi mi aiuterete a capire chi posso stigmatizzare senza generalizzare (perché questo so fare). Altrimenti mi toccherà rimanere qui sul mio divano, perché senza di voi mi viene difficile fare il mio, non ho l’indipendenza intellettuale sufficiente e non sono capace di fare le ricerche che dovrei. Non dico di diventare tutti quanti Peppino Impastato, che giace morto ammazzato dalla mafia, ma insomma un po’ di piglio critico non guasterebbe.