Appunti

Sulle deiezioni. Per un’antropologia dello spazio pubblico

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di Zeno Trentin – articolo pubblicato originariamente su “Le parole e le cose

I

Un giorno, prima del Covid diciannove, mi trovo alla stazione e mi scappa da orinare urgentemente. Dovrei aspettare ancora una mezz’ora prima di prendere la benedetta coincidenza. Non ce la farò mai: la vescica è una pelle di tamburo. A passo svelto vado al caffè della stazione dove, molto gentilmente, mi si fa presente, fuori, l’esistenza dei bagni ferroviari. All’entrata dei servizi ripuliti c’è un tornello ben oliato: 1 euro per pisciare è scritto sul cartello, o forse è scritto solo entrata 1 euro, magari per paura del linguaggio o tanto per lasciare un po’ di libertà: chissà mai uno covasse l’intenzione di piantare una iurta nel bagno glitterato o, che so, di sballarsi con la candeggina. Rovisto febbrilmente nella tasca della giacca ma trovo solo un fazzoletto usato. A passo altrettanto spedito entro al supermarket – sempre in stazione – e, al pensiero del resto in monetine, con 5 euro in banconota compro una bottiglia d’acqua per 80 centesimi di euro. Meno del prodotto finito e trasformato, realizzo con costernazione. Che ironia, ci dev’essere un inghippo nella filiera produttiva dei liquidi corporei, o sarà forse il profitto derivato dallo scambio mercantile? Dove stanno le leggi naturali dell’economia? Com’è che a ogni mutazione di materia qualcuno intasca sempre un nichelino? O i reni forse riducono il valore a sottozero tanto da dovere io rimborsare i costi dell’esternalizzazione? Penso tutto questo poco dopo scaricando la vescica.

La volta successiva -il mio bioritmo è puntuale come un orologio- mi lascio dietro la stazione attraversando per la foga fuori dalle strisce. Per la mia minzione svizzera l’euro non glielo voglio dare e con tre balzi arrivo a una caffetteria. Chiedo miserevole il favore di un wc. Lo so bene che al barista, per averla vinta, devi spesso dare l’impressione del bisogno, me lo ha spiegato chiaro anche mia mamma. Con lei funziona sempre, dice, sarà forse per il sesso o per l’età; la mia mente vola al pensiero del barista e al suo terrore di un’incontinenza. Ma non voglio essere cinico, qui è questione di moralità: è importante ch’egli senta d’aver messo la sua bontà in azione, meglio se accompagnata da un sentore d’accondiscendenza. E se chi chiede aggiunge alla ricetta un poco di vergogna, allora il gioco è fatto. Poi, per carità, come per tutto, anche questo è un fatto culturale. In Veneto ad esempio alla richiesta del favore deve mischiarsi, alla bisogna, impercettibilmente, la coscienza di stare chiedendo un sacrificio. In tal regione vige infatti, più che altrove, l’amore per questa confusione tra favore, dono e immolazione; lo si capisce perché si ha spesso la brutta sensazione, chiedendo qualche cosa, di limitare l’altrui autodeterminazione, come fosse un torto alla persona. Sarà forse il mito di Gesù, che qui, si sa, va forte, ma a me viene da imputarne la ragione originaria al piatto avito, la sardina, più prosaica e quotidiana del figliolo. Picà via come Gesù, certo, ma su sora la tòla, con la polenta al posto del Calvario. Tempi duri. Sei sorelle, sette fratelli -di cui tre saliti in cielo prima d’aver visto la luce-, il padre a bracciantato, la balia Giuseppina, la madre che non aveva tempo d’allattare perché lavorava giù in filanda e la pedagogia non era certo il forte del padrone, la suocera di lei, Moira detta Ira – la matta del paese-, e poi per giunta un dì su tre anche il prete: questo un pranzo regolare nella famiglia di mio nonno da bambino. In quel tempo, non troppo lontano, a me un boccone e quindi per esatta scienza matematica a te uno in meno. Doveva essere un inno alla sottrazione, colazione pranzo e cena. Probabilmente noi non ne abbiamo cognizione, per un glissare di memoria dovuto al senso dell’onore o al timore di disapprovazione, ma chissà se fra i bambini, i più piccini e i meno combattivi morivano di stenti, come i pulli della gazza prima dell’involo. Quale cooperazione, quale dilemma del prigioniero, quale teoria dei giochi. Giochi? Qui in Veneto bisogna lavorare, ma però non in teoria ostia; è una legge quasi evolutiva.

In un baleno entro nel bar praticando tutto il mio sapere, perché devo far capire a chi è dietro al bancone, come dicevo, la consapevolezza della mia preghiera. Gli devo far intendere che io so bene quale sacrificio gli è richiesto (io so che tu sai che io so, ci vuole un minimo di complicità) e così secondo la ricetta, a capo chino, aggiungo un pizzico di rea autocommiserazione, quanto basta a esaltare la sua benevolenza. Mentre eseguo questa pantomima alzo lo sguardo e, con sorpresa, ma non troppa, la verità mi agguanta fredda la vescica: lui è cinese. Ma non mi perdo d’animo e continuo il piagnisteo, al che lui da dietro al banco mi ammonisce sulla consumazione. L’avevo detto ch’era culturale. E poi che gliene frega a lui di uno sofferente con la vescica piena come un otre, quelli han fatto il Grande Balzo e per i morti non son stati mica lì a piagnucolare. Oppure, più probabile, migliaia di persone, per non pagare l’euro ai wc della stazione, hanno fatto pure loro la maratona al suo caffè, cosicché il barista del Zehjiang non regge più tutto sto pellegrinaggio. Alla fine chiedo un caffè lungo e dopo aver pagato 1 euro e 10 vado a liberarmi dal supplizio. Poi me ne ritorno mogio ad aspettare l’interregionale, con il pensiero all’euro dei luccicanti bagni ferroviari e a quei dieci centesimi di scarto.

Rimuginando, in treno, un senso di sopraffazione mi stringe stretto un nodo nella gola. Potrei lasciarmi andare a qualche riflessione sul Caga Tiò, il tronchetto di Natale le cui feci sono dolciumi in Occitania e in Catalogna, o alle caricature di paesi subsahariani ritraenti presidenti affetti da costipazione, a significare una cattiva redistribuzione di ricchezza. Il primo posto spetterebbe certamente all’amanita muscaria e al suo rapporto con gli sciamani siberiani che, dopo l’ingestione del funghetto, invitano altri a sorseggiare la propria urina per suscitare una visione sopita in loro o, forse, per spingerli a librarsi al di sopra delle nevi sconfinate. Insomma, per cercare un giusto verso alla questione, potrei raggranellare nella testa infiniti controesempi di un’altra economia degli elementi con cui comparare tutto questo – i bagni ferroviari a pagamento, il barista maldisposto e la svalutazione dei liquidi corporei.

Invece il mio pensiero va alla natura umana, che da che mondo è mondo è fatta di scambi corporali. Com’è possibile che un atto universale, per il quale ne va dell’esistenza, sia soggetto al pagamento di una tassa? È come privatizzare i cieli o l’acqua, o come pagare la pigione di un sepolcro al cimitero dopo morti.  Eppure tutto ciò succede e non occorre scorrere la lista dei prezzi al camposanto, basta pensare al concetto sotteso ai viaggi finanziati da Elon Musk o al tendenziosamente disatteso referendum. E in più, anche volendo tralasciare tutto questo, se piscio fuori dalla tazza, in un recesso, un vicolo o un’aiuola, scattano i paroloni sul degrado. I bagni pubblici, forse ultimo baluardo dell’eguaglianza della specie, sono stati definitivamente cancellati dalla mappa, insieme alle fontanelle a colonnina, alle lasagne di mia nonna e ai giorni dell’infanzia. Bisogna fare profitto di ogni cosa, il privato va premiato. Non c’è scampo per la cittadinanza, per l’esigere un diritto, o l’estendersi al consorzio umano di medesime possibilità. Ora, dove tutto è questione di illusoria e sbandierata scelta individuale, trionfano carità, pietas, tolleranza, vulnerabilità e altri concetti travestiti da miglioramento personale ma implicanti una cruda gerarchia sociale; anche la filosofia del care, o della cura, così diffusa oggi, e che sembra presupporre la bellezza conscia e mistica di un’uguaglianza umana nella fragilità, se inquadrata unicamente come questione di morale appare una sciagura ingannatrice. Chi ha bisogno è in balia continuamente del ricatto, o al limite della compassione di un barista. L’affermazione del mio desiderio non può essere di natura collettiva, ma si riduce a un grazie vorrei se posso, dato che così è posto il problema. In fondo, nel profondo, l’inghippo è questo qui, ed è un universale: far capire a chi è male in arnese che la colpa è solo sua, che lui non è altro che l’emblema di un malfunzionamento personale o, al limite, di una predisposizione che affligge la sua ridotta cerchia o, per dirla con parola desueta, la sua classe. In definitiva, si può dire, la meritocrazia esiste finalmente, ma solo nel senso dantesco dell’inferno. La sociologia, invece, che pare ammutolita, è uno sport di combattimento; l’ha scritto uno che è morto da una ventina d’anni e non da settecento come il Vate, anche se pare tumulato nell’era mesozoica.

Fin nei visceri, in profondità, ho scoperto quasi senza che me ne accorgessi la legge del consumo a pagamento di ogni cosa. È il caso di parlare di incorporazione, ed è in particolare una ridefinizione di natura l’assedio all’intestino tenue da parte del privato e della smania di profitto. Per contrastare tutto ciò ci vuole un colpo di garuffa culturale, mi dico mentre il treno sferraglia alla sua destinazione tra paesi tumorali cresciuti a macchia d’olio, campi e zone industriali, e palme e capannoni e individui solitari sfilano veloci sfocati nella nebbia da avvezione.

II

Qualche mese è passato da quel dì e ora siamo in piena pandemia. Al di là del finestrone del vagone, lassù in alto nel cielo, i cirrostrati, colorati dal sole che discende tra le polveri sottili, osservano qui in terra la vita che si fa e si disfa, tra spasimi e singhiozzi di noi esili creature. Tra qualche giorno pioverà. Nel vagone poca gente, tutta china sullo schermo del proprio cellulare; ne vedo solo gli occhi intenti, unico dettaglio della faccia fuori dalla mascherina. I giovani digitano veloci sullo schermo – forse tra una generazione avremo due pollici opponibili, sarà una grande evoluzione -, e i vecchi, aggiustandosi gli occhiali sopra il naso, fanno le smorfie guardando l’interfaccia quasi li aiutasse a migliorare la visione. Allora penso a che strano paradosso: la dimensione pubblica regredisce ininterrottamente -cosa c’ho in comune io con l’altro, poco o niente; cosa posso creare io con l’altro lì, fuori di casa, in uno spazio terzo? – mentre ognuno indaffarato nella sua presunta boccia di vetro del privato, nell’ipertrofia della dimensione personale e della sua creduta peculiarità, in realtà svende i suoi gusti e le sue necessità ai giganti digitali del consumo. È un assurdo che non riesco a sgrovigliare e il pensiero lineare non mi aiuta.

La frenata stridula del convoglio ferroviario mi strappa alle mie elucubrazioni. Scendo imbacuccato nel pastrano e mi incammino per il viale lungo il parco comunale; poca gente in giro, qualche pedone dalle gambe anchilosate per l’autoisolamento, due ciclisti dai polmoni buoni, una donna incanutita col bebè nel passeggino; giù in fondo il gippone dei soldati di pattuglia e, più vicino, la manciata di spacciatori intirizziti, sfuggenti come la sparuta anguilla. Non il giallo dei limoni, ma gli alberi spogli escluso il sempreverde; qualche panca, ormai più rara del gipeto. Forse anche di panca scorderemo il significato, se seguiterà di questo passo il suo processo d’estinzione. Già da qualche anno, nel parco e in altri parchi, la situazione è affine. Si fa divieto del gioco del pallone, consumare bevande alcoliche, detenere bottiglie di vetro, andare in bicicletta, ascoltare musica, produrre rumori e praticare giochi molesti, fare uso scorretto delle panchine, bivaccare, danneggiare il verde, fare un uso improprio dell’acqua (lavarsi), sdraiarsi sul manto erboso dal tramonto all’alba (da un po’ sta pensando l’amministrazione di estenderlo a tutta la giornata) e, a coronare tutto ciò, come un surrettizio ammonimento alle naturali transizioni corporali, all’umana relazione al mondo, il divieto di consumare alimenti seduti in uno spazio pubblico è stato applicato pure al centro storico. E allora ci droghiamo, hanno scritto dei ragazzi sulla lista dei divieti all’entrata di un parchetto di quartiere. A conti fatti, la vita dell’amante del plein-air non è una passeggiata. Si potrebbe aggiungere qualche altro decreto tipo proibire i cori sardi, il commercio degli schiavi o il zufolare ariette in mi minore, o invece almanaccare un po’ su ogni lemma sciorinato: che vuol dire molesto? Molesto per chi? E poi, ovvio, se per uso improprio delle panche si intende l’adoperarle come ceppi da falò, posso capire non sia proprio costituzionale. Però mi sembra che non serva fare le pulci alla lista della spesa. Ciò che avvilisce è la legittimazione assoluta ed egemone all’assenza di vitalità. In questa società la senescenza è dominante, ma la variante demografica non può spiegare in toto ciò che accade. È come se le abitudini di una certa società, silente moralista e grigia, spaventata da ciò che non conosce, pavida delle imperfezioni delle vita e delle sue fragilità, tremante come qualcuno che si affida a Dio per terrore della morte dopo una un’esistenza troppo triste, fossero dilagate nello spazio pubblico come fa la nebbia polesana. Quest’ultimo, però, non può costituire il semplice rispecchiamento di una parte. Lo spazio pubblico appare ridotto a un bagnasciuga: qualcuno, un po’ smarrito, sta lì in piedi, scalpicciando tra lo stabilimento e l’onda. La trasmutazione alchemica dello spazio pubblico in battigia ha preceduto l’arrivo della pandemia, che solo ha dato un’accelerazione: rodendo ulteriormente il suolo sotto i piedi, non ha rappresentato che il flusso di marea. Nessuna discontinuità nella gestione di questa circostanza (lasciamo stare i fessi che parlano di guerra); non c’è alcun riferimento più alto, più profondo e carnale alla comunità, al che vuol dire stare insieme, ma solo perversioni di concetti quali sicurezza e individuo, e questo nemmeno inteso come membro di una specie appartenente alla storia naturale o all’ecologico complesso della fauna.

La notte è ormai alle porte. Scalcio via un mucchio di foglie cadute sul selciato, ma prendo una sporgenza e impreco tra me e me perché ho gli alluci gelati e le scarpe non mi danno protezione. Papà, sarà che sua madre era del sud, da anni mi ripete di non usare più d’inverno le scarpe di tela, e anche di asciugarmi i capelli con il fon prima di uscire; tutto questo per paura che mi pigli un accidente. La faccenda del fon l’ho subito capita; le scarpe però le indosso spesso, sono un mio piccolo orgoglio personale.

Incrocio una ragazza trafelata; non la vedo dalle medie, e aspettando alla fermata scambiamo due parole. In quel tempo la trovavo già carina e sono un poco intimidito (per fortuna c’ho le scarpe che mi fanno da amuleto). Non sapendo cosa dire e per darmi un certo tono provo ad aprire la discussione sui pensieri appena fatti, sul parchetto, il bagnasciuga, la collettività e i divieti. Poi arriva la corriera e lei accenna un saluto sbrigativo; mentre affronta il predellino ho la netta sensazione di aver fatto il pedantone fuori luogo. Anche lei è passata, penso, è andata. Tutti passano per le vie, nessuno sta, rimane a fare, o solo più semplicemente a stare. C’è chi va al lavoro, chi compra una vestaglia o un orologio, chi mangia una piadina in piedi o una palla di gelato, chi beve un sorso alla terrazza di un caffè. Ma tutti questi passano, nessuno sta. Perché vige un recondito e strano accoppiamento tra il transitare e la sfera del privato da una parte, e dall’altra tra il pubblico e lo stare, o il sostare, in relazione. I bambini giocano nella piazzetta, un musicista suona, lo spettatore del viavai fuma sulla scalinata di una chiesa, un tizio dorme tra i cartoni sotto un colonnato e una coppietta si scambia campioni di saliva davanti a un portone accostato: qui finisce l’innamoramento tra lo spazio pubblico e la vita di per sé. Questo il degrado. Ah, dimenticavo, sarò costretto a rivalutare lo struscio, che qui si chiama vasca, che è un passare, certo, ma anche uno stare, insieme, in una via di tutti.

Entro in centro per la porta cittadina rincuorato dal pensiero di una tazza di tè caldo fumante. Percorro il marciapiede verso casa; dall’altra parte della strada, sotto il muro alto di un giardino che corre lungo tutto il vicoletto, le linee gialle a terra disegnano un parcheggio per le auto. Nella penombra azzurra del lampione, tra un’auto e l’altra del facoltoso vicinato, scorgo un cappello rosso un po’ sgualcito. Lo riconosco, è Giorgio, il tossico che bazzica qui intorno certe volte. L’ho visto spesso accucciato tra le auto, lui soltanto o con qualche suo compagno, mentre si inietta l’eroina in vena. La gente del rione deplora l’atto osceno e teme per la borsa; il giornale cittadino, vecchia prefica tutt’altro che imbolsita degli industriali, caninamente latra farfugliando di degrado. A me personalmente non dà nessun fastidio. Capita a volte di scambiarci un ciao sommesso, anche mentre Giorgio è intento alla delicata operazione; ci si vede molto spesso e ormai non c’è più un’ombra di vergogna, né mia né sua.  Continuo come nulla fosse il percorso stabilito; con la coda dell’occhio, però, mi accorgo di un dettaglio inusitato. Giorgio è di spalle, con le brache abbassate fino alla caviglia, e lo odo mugugnare per lo sforzo.

Uno stupore nudo mi sottrae dall’avanzare e mi ritrovo a osservarlo imbambolato. La mia testa si infittisce di pensieri, tra cui il freddo che patisce al fondoschiena e l’indignazione dei vicini, di cui già pronostico le lamentazioni sulla civiltà o l’inciviltà di una condotta. Ancor di più mi meraviglia il rapimento che quest’atto ha suscitato in me. Non capisco cos’è che mi paralizza lì a guardare; non si tratta di un mio amore indicibile e segreto per la cacca. È come contemplassi un’aurora boreale sopra il circolo polare, o il parto faticoso di un cetaceo, come un subacqueo immerso tra ultrasuoni emessi dalle bestie, o lo scintillio del bianco delle vele saracene all’orizzonte, sopra il blu profondo e alto del mare.

Improvvisamente capisco la sorpresa per questa visione di Giorgio accovacciato sull’asfalto. Il suo corpo rannicchiato in quel cantone mi pare l’espressione di uno stare d’assediato. Forse anche lui a suo modo si ritrova naufragato su quella striscia sottile della spiaggia che chiamiamo bagnasciuga, lambito dalle onde. Come non si potesse stare da nessuna parte, più. Chiuso tra un muro, due auto e la linea gialla del parcheggio, lo spazio pubblico mi pare solo un fazzoletto, un piccolo rifugio dove Giorgio, braccato a destra e a manca dai divieti e nel difetto di uno spazio dove sia possibile creare, accogliere, vivere, incontrare, si destreggia nell’affanno come può. Poi probabilmente lui non pensa tutto ciò, ha altri questioni, altre preoccupazioni, e i suoi problemi non quadrano per intero con miei. Ma son sicuro che anche Giorgio subisce in certo modo questa assenza.

In quel momento Giorgio al colmo dello sforzo finalmente fa la cacca. A me pare una liberazione; grama, certo, e triste, ma l’espressione vera di uno stare. E le sue feci somigliano a una piccola riappropriazione, a un tentativo non violento e non provocatorio, ricolmo di candore, accidentale, di ritornare a una dimensione umana. Poi, se vogliamo entrare nel dettaglio, non è tanta la cacca, è poca cosa, ed è pure un poco secca come quella di una capra. Ma io dentro di me sono contento per lui e mi complimento per quell’atto. Non solo per quanto detto sopra, ma anche perché in questo periodo cerco di rimanere accanto alla mia vecchia nonna che è alle soglie della vita, e ho appreso della stitichezza causata dagli oppiacei.

Gli Awà, i Runa e i Karajà e altre popolazioni che abitano nei territori del giaguaro, dormono supini nell’amaca per evitare di essere sbranati nella notte. Giacché il felino, nell’atto di predare, evita lo sguardo della preda. Non credo per pudore di ammazzare, ma per non essere visto, forse, o forse perché l’incrocio dello sguardo altrui significa a sua volta potere essere predato. Come per caso, o come se avvertisse il mio sguardo sulla schiena per un istinto arcaico al gioco della caccia, Giorgio volta la testa e coglie il mio fissarlo, mentre ancora il mio spirito trabocca dell’epifania politica apparsami a sorpresa. Trasalisco un poco imbarazzato; interdetto da quella strana situazione non riesco a spiccicare una parola. Non so se per saluto, o per scusarmi, faccio un cenno con la mano e me ne vado, mentre a Giorgio muore sulle labbra una domanda.

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