È davvero difficile trattare questo argomento cercando di non porsi anticipatamente un filtro di lettura per cui la sospensione (ban) di Trump dai social – non solo da twitter in realtà – sia aprioristicamente giusto o sbagliato.
Cominciamo intanto recuperando ciò che è successo, e perché. L’8 gennaio 2021 il Presidente (uscente) degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, è stato sospeso da Twitter: in gergo, è stato bannato. In maniera permanente. Subito dopo ha subito la stessa sorte anche su altri social, su Facebook e Instagram in primis e a seguire anche su Snapchat. Dietro a questa scelta c’è stata tutta una serie di tweet e post, che violavano in maniera più o meno forte le condizioni e i termini che tutti gli utenti devono approvare per utilizzare questi social network.
Per farla brevissima: in questi ultimi mesi il Presidente Donald Trump ha messo in dubbio la correttezza dei processi elettorali e, quindi, del risultato delle elezioni, che hanno visto vincere Joe Biden, il candidato democratico. Questa tesi non solo non è mai stata verificata, ma molte prove che circolavano sui social si sono rivelate false e nei tribunali il team di avvocati a difesa di Trump, guidato da Rudy Giuliani, è stato sconfitto 61 volte. Ha anche vinto per la cronaca: 1 volta.
A questo punto è bene ricordare che, prima di arrivare alla sospensione permanente, Twitter aveva tentato altre strade: inizialmente aveva aggiunto un avviso immediatamente sotto ai tweet che contenevano inesattezze o affermazioni non provate; poi aveva impedito la possibilità di condividere o commentare tweet simili. Pur con tutte queste limitazioni online, offline prendeva piede un avvenimento senza precedenti.
Saltiamo a piè pari la liturgia politica americana: vi basti sapere che il 6 gennaio il Congresso degli Stati Uniti era riunito al Campidoglio, a Washington DC, per certificare definitivamente la vittoria di Joe Biden. Per quello stesso giorno è stata convocata dal Team Trump una manifestazione di fronte alla Casa Bianca, simbolo della Presidenza degli Stati Uniti, chiamata “Save America March”. Tradotto: “La marcia per salvare l’America”. Se il nome dell’evento non fosse già abbastanza chiaro, ci ha pensato lo stesso Donald Trump a fugare ogni dubbio durante il suo comizio: “Dopo marceremo fino al Campidoglio, e faremo il tifo per i nostri coraggiosi parlamentari”. Aggiungendo poi: “Non possiamo riprenderci il nostro stato con la debolezza. Dobbiamo essere forti e dobbiamo mostrare la forza.” Non ha fatto a tempo di finire il suo discorso che già molti sostenitori si sono diretti dalla Casa Bianca al Campidoglio, raggiungendone altri che erano già lì a manifestare. In questo ottimo articolo del New York Times potete trovare la ricostruzione degli eventi di quel giorno.
Sappiamo tutti come è comunque andata a finire. Le migliaia di manifestanti hanno sfondato diversi cordoni di sicurezza, irrompendo addirittura nell’edificio e interrompendo la seduta del Congresso. Più aumentavano le violenze, più Trump si chiudeva nel silenzio. Si arriva anche agli spari: una manifestante in seguito morirà per un colpo in pieno petto. Ad un certo punto Trump rompe pubblica un video registrato di un minuto appena: “We love you, you’re very special” – dice – “I know your pain, I know you’re hurt. We had an election that was stolen from us. It was a landslide election and everyone knows it. Especially the other side. But you have to go home now. We have to have peace.” Riportiamo, in italiano, una frase in particolare: “Sappiamo che l’elezione ci è stata rubata. Abbiamo vinto con un margine importante e tutti lo sanno”.
Questo videomessaggio viene diffuso mentre i manifestanti erano ancora all’interno del Campidoglio. Ed è vero che Trump chiede loro di andare a casa, ma nel contempo avalla le loro tesi e dice di voler loro bene. Che sono speciali. In pochi minuti il video è visto da milioni di persone. Un’altra manciata di minuti e i social network intervengono, eliminandolo. Gli account di Trump vengono sospesi temporaneamente. L’8 gennaio, infine, il ban diventa permanente.
Tutto questo ampio racconto è fondamentale per avviarci in una riflessione sul tema del rapporto tra libertà e social network. La sospensione degli account di Donald Trump è figlia infatti di una valutazione del contesto più che dei tweet e degli stati in sé. Lo dice chiaramente Twitter cancellando gli ultimi tweet di Trump: “these two Tweets must be read in the context of broader events in the country and the ways in which the President’s statements can be mobilized by different audiences, including to incite violence, as well as in the context of the pattern of behavior from this account in recent weeks”.
Una considerazione che ci proietta nel futuro distopico di Minority Report per un certo verso. Si potrebbe giustamente obiettare: ma chi può dire cosa potrebbe succedere prima che effettivamente accada? Il punto è che è già successo. Nella realtà. E per questo è stato fondamentale recuperare alcuni avvenimenti di quel 6 gennaio: è stato Trump a dire di marciare, e migliaia di persone l’hanno fatto. Trump non ha mai detto di assaltare il Campidoglio, naturalmente, ma non si può – come ha valutato Twitter – pensare che una massa segua pedissequamente le parole di una persona. Perché la massa si può guidare, ma non si può controllare.
Ma c’è sicuramente un tema di libertà. Se c’è chi decide cosa è giusto che io dica e cosa no, siamo allora davvero liberi di dire ciò che vogliamo? E soprattutto, scomodando un fumetto di oltre trent’anni fa: chi controlla i controllori?
Quella di Twitter e degli altri social network è comunque una scelta di comodo, che arriva nel momento più comodo: poteva essere fatta ben prima negli ultimi anni, eppure si è deciso di agire solo a pochi giorni dal termine del mandato. Trump aveva già avuto modo infatti di violare le regole imposte dai social, ma a suo tempo nulla fu fatto, e negli anni non sono state sicuramente poche le polemiche a riguardo.
Non è peraltro una novità la sospensione di account di suoi utenti da parte di un social network. C’è addirittura una pagina wikipedia dedicata ai ban Twitter.
Vorrei a questo punto evitare di trattare la tesi per cui “i social sono aziende private e fanno ciò che vogliono, fine”. La trovo decisamente superficiale. Corretta magari sulla carta, ma porsi domande è necessario per migliorare le cose. In questi giorni molti hanno anche obiettato: “ognuno deve esser libero di dire ciò che vuole, sta a chi ne fruisce di decidere se crederci o meno e come comportarsi poi”. In questo caso, in netto contrasto con l’affermazione precedente, non si riconosce la proprietà dello spazio in cui esercitiamo la nostra libertà, anteponendovi la sua funzione sociale e il suo carattere democratico.
Da queste due affermazioni possiamo già interrogarci su alcune questioni. Forse la più importante è appunto sulla democrazia effettiva dei social network. C’è già un primo, enorme scoglio: i social network non sono aperti a tutti. No, non parliamo di regole da accettare, ma del passaggio precedente ancora. Per poter accedervi serve un mezzo, che non tutti hanno. Serve una connessione internet, che non tutti hanno. Serve corrente, che non tutti hanno. Non importa di quanta gente si tratti: di fatto già non si può parlare di democrazia, perché ci sono due popoli distinti, e cioè chi può e chi non può accedervi.
Ma entriamo in questo mondo, per sua natura elitario. Al suo interno vi è un ulteriore componente che fa sì che non tutti siano di fatto uguali: il tempo. Non basta accedere a un social network per avere lo stesso “potere” degli altri utenti. I social pretendono produzione di contenuti, costanza e risultati: più uno eccelle, più sarà notato. È la base del famoso “algoritmo”, che regola quanto i nostri post saranno visti e, soprattutto, da chi saranno visti.
Stiamo quindi navigando in un mondo che di natura non è democratico. E al cui interno ci sono persone che valgono più delle altre. Un valore che non più dato dalla propria qualifica, ma anche e soprattutto da quanto si riesce a soddisfare l’algoritmo che tutto regola. Non per niente, il valore di un utente in certi social è proprio monetizzato. Con questa disparità non si può pensare che tutti possiamo godere della medesima libertà.
È inutile estremizzare gli esempi. Prendiamo quello che è successo in questi mesi in America: il sesto profilo Twitter più seguito al mondo che twitta esortando una marcia verso il Campidoglio e invitando a fare di tutto per non certificare la vittoria “rubata” di Joe Biden ha un valore molto diverso da un utente qualunque con pochi follower. Non perché è il Presidente, ma perché un suo stato in pochi minuti viene visto da milioni di persone (milioni!), che potrebbero condividerlo fino ad arrivare ad altrettanti milioni di persone (altri milioni!).
Questa è la grande differenza tra online e offline. Nel mondo reale gli strumenti della democrazia sono regolati e controllabili; nel mondo virtuale, no.
Sarebbe facile a questo punto ritenere giusto il ban attuato dai vari social a figure scomode e potenzialmente pericolose. Ma qui c’è un altro problema, che è il ruolo che un utente occupa effettivamente nel mondo reale. Se non si può infatti vedere o leggere ciò che dice o pensa, ad esempio, un certo attore politico, come possono gli organi di informazione riportare posizioni e pensieri di quel politico? Come si può avere un suo quadro completo così da esprimersi con coscienza nel voto? Ed è per questo motivo che abbandonarsi a una logica puramente aziendalista come dicevamo è sbagliato, o quantomeno superficiale: l’online ha effetto sull’offline, e non si può non valutarlo.
Premesso che abbiamo anche già visto giornalisti fermare in diretta interventi di Trump, il tema che si pone va ben oltre ai social. Va anche alla loro capacità di fare informazione e addirittura alla loro equiparazione a testate giornalistiche, e va al grado di libertà che può avere il giornalismo tutto.
Bisognerebbe quindi chiedersi più in generale: ci deve o no essere un limite nell’informazione, prima che nei social stessi? Se no, i social non possono che essere liberi, in quanto contenitori di informazioni e informazione. L’Isis postava proprio sui social le proprie esecuzioni: dobbiamo accettarle? Se invece questo è troppo, allora il limite dove sta? Nella morte? L’assassinio di George Floyd allora era da eliminare in velocità. Ma senza scomodare l’Isis o George Floyd: un giornalista che riporta i tweet che vengono cancellati di Trump, deve subire quindi il medesimo trattamento? Se sì, allora le decisioni dei social network vanno ben oltre i social network, con implicazioni nel mondo reale e non solo nel mondo virtuale.
Come avrete capito, è difficile prendere una posizione netta su tutto questo tema. Si parla di informazioni e di informazione, non solo di libertà di parola e delle sue conseguenze. Sicuramente però è necessario porre delle regole. Perché non vi è democrazia senza regole, nemmeno online. E non possono essere regole dettate unicamente da un’azienda. È più che mai urgente che gli Stati capiscano davvero i tempi che corrono e non si limitino a mettere pezze qua e là in risposta al più a spinte lobbistiche autoconservative. I social devono essere regolamentati, e devono essere regolamentati dallo Stato, che ha la responsabilità di tracciare una strada sulla base di un’idea politica di società. Non è un tema facile, ma porlo senza preconcetti è fondamentale. Prendere coscienza d’altronde è il primo passo per la conoscenza, e la conoscenza è la base su cui costruire nuovi tasselli della nostra società.