Intervista a Marina Resta e Giulio Todescan
Siamo giunti quest’anno al quinto appuntamento con il Working Title Film Festival. Riguardando indietro alle scorse edizioni, il festival ha attraversato diversi luoghi della città: partivate da un cinema di quartiere, avete transitato per il ridotto del Teatro Comunale, vi siete poi spostati nel centro sociale Bocciodromo per approdare infine al cinema Odeon. Quali motivazioni ed esigenze hanno accompagnato questo percorso nella città? Cercavate luoghi a cui ha tipicamente accesso una platea più ampia e composita oppure intendevate rivolgervi ad un pubblico già sensibilizzato alle tematiche del festival?
Le location del festival sono cambiate in relazione a due variabili: in primo luogo la disponibilità degli esercenti o gestori degli spazi, in secondo luogo il budget a disposizione. Siamo partiti dal Cinema Primavera perché Rosa Maria Plevano, che all’epoca della prima edizione ne curava la programmazione, ci ha offerto grande disponibilità, consentendoci di programmare diverse giornate di proiezioni. Dopo due edizioni il contesto era cambiato, lei non curava più la programmazione e non avevamo più lo stesso supporto. Così ci siamo guardati attorno e abbiamo trovato nel Ridotto del Teatro Comunale una soluzione tecnicamente ottima ma dal punto di vista del budget molto dispendiosa. Inoltre il Ridotto, uno spazio che consente altissima qualità delle proiezioni, non ha una programmazione cinematografica regolare, quindi non ha un pubblico affezionato, a differenza del Primavera. Per la quarta edizione, nel 2019, è stato provvidenziale il cambio nella gestione della programmazione del Cinema Odeon, con l’arrivo di Enrico Ladisa e Denis Lotti, che ci hanno mostrato grande disponibilità ad ospitare le proiezioni in sala. Quest’anno la scelta di realizzare la quinta edizione interamente online è stata obbligata dalla pandemia, ma stiamo cercando di sfruttarla per trovare un nuovo pubblico extra-cittadino. In tutto questo lo spazio Exworks accanto al negozio di design Zerogloss è sempre stato il “secondo spazio” dove abbiamo ospitato mostre, dibattiti, aperitivi e negli ultimi anni la sezione Extraworks dedicata alle opere sperimentali e più vicine alla video arte. Abbiamo costruito nel tempo uno zoccolo duro di pubblico che ci segue ovunque, ma ogni spazio ha le sue specificità e attira persone diverse.
Dopo un’anteprima dal vivo a Porto Burci, nel 2020 il festival si è spostato interamente online, creando una piattaforma di streaming in cui sono disponibili ben 59 film e a cui è possibile accedere da qualsiasi angolo del pianeta con sufficiente connessione Internet. Volete raccontarci qualcosa di più sulla realizzazione di questa piattaforma?
Nei mesi estivi abbiamo compiuto un lavoro di ricerca sulle diverse opzioni per realizzare il festival online. Alla fine la scelta è caduta su Cinesend, una società canadese che fornisce servizi di trasferimento di DCP – i film distribuiti nei festival e in sala sono in sostanza dei file molto pesanti – a produzioni e distribuzioni cinematografiche. Durante il periodo di lockdown Cinesend ha realizzato un servizio per i festival, che noi abbiamo affittato per tre mesi. Loro forniscono i server e la piattaforma, che comprende la possibilità di navigare comodamente tra i film, un po’ come su Netflix, scegliendo tra i sottotitoli in italiano o in inglese – realizzati da noi con il supporto dell’interprete e traduttrice Giulia Galvan e delle stagiste della Scuola Superiore per mediatori linguistici di Vicenza –, mentre noi ci siamo occupati di caricare i film e le sinossi, e personalizzare l’aspetto della piattaforma con il grafico Andrea Xausa. La parte forse più difficoltosa è stata la realizzazione di un piccolo e-commerce sul sito del festival, e il collegamento tra l’acquisto di un abbonamento e la creazione di un account sulla piattaforma. Non è stato sempre semplice convincere i distributori dei film a permetterci di trasmetterli online. Il compromesso è stato la creazione di una finestra piuttosto breve – 15 giorni – e la possibilità di acquistare i film in un unico pacchetto-abbonamento, non mettendo in vendita biglietti per i singoli film. Infatti quest’ultima ipotesi avrebbe configurato una modalità di distribuzione VOD (video on demand) che sarebbe entrata in concorrenza con i piani di distribuzione dei diversi film.
Siete riusciti in questi anni a ricostruire un identikit del vostro pubblico? Come si compone in termini di sesso/età/professione/condizioni lavorative/istruzione?
Il grosso del nostro pubblico è di un’età al di sopra dei 50 anni e di istruzione medio-alta, abituato ad andare al cinema e ad affrontare anche film non facilissimi, e poi con molta voglia di discuterne con i registi che invitiamo alle proiezioni. Poi c’è una fascia di pubblico più giovane che però è più discontinuo. Il fatto che Vicenza sia una città non universitaria rende più difficile incontrare il pubblico dei ventenni e dei trentenni, che in città come Bologna o Milano ama frequentare i festival. Nella prima edizione abbiamo sperimentato i matineé con studenti di scuola superiore e nella seconda edizione un laboratorio audiovisivo con produzione di tre cortometraggi: sono state esperienze molto interessanti, ma coinvolgere le scuole comporta una serie di incombenze burocratiche non facili da gestire (e di questi tempi non ne parliamo).
Il ricorso ai mezzi tecnologici più avanzati, in questo caso l’utilizzo di una piattaforma streaming, può infoltire il pubblico del cinema indipendente? In che modo?
Questa è stata la scommessa su cui abbiamo voluto puntare quest’anno. La risposta è ambivalente: è sicuramente vero che lo streaming apre spazi grandissimi per le produzioni indipendenti, ma è anche innegabile che, di fronte all’immensa offerta che si trova online, sia molto difficile intercettare il pubblico interessato a quelle opere. Siamo molto realisti su questo: non ci facciamo illusioni, e allo stesso tempo pensiamo che lavorare seriamente e con costanza, alla fine, porti a dei risultati, anche se certamente i numeri restano abbastanza limitati. Sullo sfondo c’è un tema di educazione al linguaggio audiovisivo: siamo bombardati da immagini, e soprattutto le giovani generazioni fanno fatica ad approcciarsi a linguaggi come il cinema documentario, che richiedono un’attenzione maggiore rispetto alle clip di pochi secondi che sono veicolate dai social.
In questi anni siete stati attivi in svariate occasioni al di fuori dei giorni del festival, ad esempio contribuendo alla programmazione online del cinema Odeon durante il lockdown. Pensate di mantenere attiva la piattaforma streaming anche a festival concluso, caricandovi nuovi contenuti? Vi alletta l’idea di costituire potenzialmente una sorta di Netflix apertamente schierata dalla parte di chi lavora e delle produzioni indipendenti?
La piattaforma utilizzata quest’anno verrà disconnessa subito dopo la fine del festival, il 15 ottobre, perché mantenerla attiva avrebbe dei costi di affitto per noi insormontabili e anche per tener fede agli accordi con registi, produttori e distributori. In generale ci piace l’idea di proporre ancora contenuti online, ma solo quando ne valga davvero la pena. Ad esempio il Primo maggio, durante il lockdown, abbiamo avuto il piacere di proporre, sulla piattaforma VOD del Cinema Odeon, il documentario On Va Tout Péter di Lech Kowalski, in anteprima italiana VOD, e di intervistare online il regista e la produttrice e montatrice Odile Allard. Altre piattaforme online italiane stanno sperimentando formule di distribuzione regolare di film indipendenti, ad esempio OpenDDB.
Questi mesi di pandemia hanno scombussolato la narrazione mediatica del lavoro: ci è stata raccontata una nuova divisione, quella tra lavori essenziali e non essenziali, tra chi può lavorare da casa e chi no; inoltre, chi prima annunciava la piena automazione e l’avvento dei robot si è smentito, reclamando che tutti tornassero fisicamente al proprio posto di lavoro. Dal vostro punto di vista che cambiamenti avete osservato? Sono divisioni e contraddizioni che lambiscono anche la rappresentazione del lavoro nei film?
Il cinema da sempre racconta quello che accade e sicuramente in maniera diretta e indiretta i film dei prossimi anni rifletteranno le conseguenze sociali ed economiche dell’emergenza Covid-19. Al momento sono stati realizzati per lo più instant movie, più relativi alla situazione presente – che comunque comprende un auto-narrazione dei registi e del loro stesso lavoro. Tuttavia, segnalo tra i film in programma “For A Fistful Of Masks” di Michele Galeotto, un cortometraggio di finzione ambientato a Hong Kong che, attraverso una chiave ironica, affronta il tema della penuria di alcuni beni resi improvvisamente essenziali dalla pandemia, come le mascherine.
Parlando più in generale dei contenuti del festival, lungo il vostro percorso si sono affacciate prospettive o problematiche tali da ampliare la vostra finestra sul mondo del lavoro, magari non considerate inizialmente?
Fin dall’inizio abbiamo pensato al lavoro in termini molto ampi, lontani dagli stereotipi della fabbrica e del solo lavoro dipendente. Con gli anni ci siamo resi conto che sono sempre meno i film che raccontano quel tipo di immaginario classico, mentre molti rappresentano mestieri molto particolari e interessanti. Ad esempio “En busca del Óscar” di Octavio Guerra Quevedo, premiato proprio in questi giorni come miglior lungometraggio a Working Title Film Festival 5, ha per protagonista un critico cinematografico spagnolo che riflette in modo molto paradossale – e divertente – sul ruolo che quel mestiere ha, o non ha più, nell’attuale regime mediatico-spettacolare. La sua soluzione è non guardare i film, e affermare che le recensioni che si basano esclusivamente sulla visione del manifesto del film abbiamo maggiore dignità di quelle basate sull’effettiva visione.
5 anni sono un intervallo di tempo che può permettere una crescita professionale, oltre che personale: come vi sentite in questo momento, in qualità di organizzatori e di responsabili artistici?
Dopo cinque anni possiamo trarre un primo bilancio. Dal punto di vista professionale e personale organizzare questo festival ci ha dato grandissime soddisfazioni: incontrare di persona i registi, andare a prenderli in aeroporto o condividere con loro un bicchiere di vino o una discussione, vedere una sala che si riempie di pubblico o ricevere una critica o un complimento sono tutte emozioni che ci hanno arricchito. Abbiamo anche imparato tanto sulle moltissime competenze necessarie per organizzare un evento di questo tipo, per quanto piccolo: dalla realizzazione dei file DCP per le proiezioni all’ufficio stampa, dall’ospitalità ai sottotitoli, fino alla realizzazione e alla stampa di un catalogo bilingue in ogni edizione. D’altra parte la fatica è stata davvero grande. Sapevamo all’inizio che ci saremmo imbarcati in un’avventura un po’ folle e che smuovere le acque di questa città un po’ troppo addormentata non sarebbe stato affatto facile. E infatti ci siamo scontrati con uno scarso o nullo appoggio istituzionale, senza troppe differenze tra una giunta e l’altra. Invece vogliamo sottolineare il supporto economico e non solo dei tre sindacati provinciali CGIL, CISL e UIL e dei loro segretari Giampaolo Zanni, Raffaele Consiglio e Grazia Chisin, con i quali abbiamo anche organizzato l’evento cittadino del Primo Maggio, che si è svolto interamente online e ha dato voce ai lavoratori essenziali del periodo Covid. Non nascondiamo che dopo un lustro la fatica inizia a pesare. Il festival è promosso dall’associazione di cui facciamo parte, Laboratorio dell’inchiesta economica e sociale – LIES, e lo staff impegnato nell’organizzazione è piuttosto ridotto. Ci prenderemo qualche mese per riposarci e per capire come ripartire. Ci piacerebbe allargare la base su cui il festival poggia, in termini di persone coinvolte, di organizzazioni a supporto, e di budget, punto dolente in particolare di quest’ultima edizione, in cui il festival non ha potuto usufruire di contributi di fondazioni bancarie, come avvenuto nelle precedenti edizioni, perché i bandi dedicati alla cultura non sono stati effettivamente pubblicati, a causa dell’emergenza Covid.
Grazie! Come redazione di Fornaci Rosse ci uniamo in quest’augurio, Buon lavoro!