di Chiara Celoria
SISTERHOOD – WE ARE NOT FLOWERS…WE ARE FIREWORKS
In agosto Shinzō Abe annuncia le sue dimissioni da Primo Ministro del Giappone e il Paese si trova a dover stilare un resoconto sulla sua attività politica. Fra tutti gli obiettivi prefissati durante il lungo mandato, il miglioramento della condizione femminile non sembra aver conseguito i risultati attesi. Il piano per ottenere una crescita dell’occupazione garantendo alle donne maggiore accesso alle posizioni manageriali, lanciato con l’entusiastico slogan “shine!” (in inglese “brilla!”) per alcuni aspetti ha addirittura peggiorato un quadro già in partenza sfavorevole, tant’è vero che letto alla giapponese il promettente auspicio ha la stessa pronuncia di un macabro “crepa!”.
Secondo il New York Times, se è vero che la presenza delle donne nel mondo del lavoro è aumentata, non lo è la possibilità di avanzamento di carriera: più della metà hanno impieghi part-time e contratti a termine che non consentono un’autonomia di reddito. Il governo si era posto come traguardo il raggiungimento del 30% di quote rosa nei ruoli dirigenziali, ma oggi la percentuale si attesta intorno al 12%.
Per la studiosa femminista Ueno Chizuko le donne in Giappone rientrano in due sole categorie: un’élite privilegiata (il cui privilegio è nell’apparenza della libertà di scelta propinata dai miti del neoliberismo) e la maggioranza che lavora come irregolare.
Un esempio di questa disparità di trattamento è fornito dal caso delle madri single, che vivono sempre più in condizioni di indigenza, penalizzate dalla legge che non assicura il supporto finanziario da parte dell’ex dopo il divorzio e dalle lunghe liste d’attesa per iscrivere i bambini all’asilo nido. Dal 2012 al 2020 c’è stato un drastico aumento delle madri aventi un reddito al di sotto della soglia di povertà, anche a causa della pandemia di Covid-19 che ha portato con sé licenziamenti e demansionamenti.
Pur essendo storicamente fondato su società matrilineari con spiccata componente mitologica femminile, il Giappone assorbì dalla Cina l’etica confuciana nel periodo Edo (1603-1868) e ai suoi precetti di divisione dei ruoli (la donna doveva prestare obbedienza al padre, al fratello, al marito, o ai figli maschi se rimasta vedova) è rimasto fortemente ancorato. Su questo sfondo il regista Takashi Nishihara (1983) costruisce un docu-fiction che nasce dall’urgenza di portare alla luce gli effetti dello squilibrio di genere nella società giapponese. Da uomo, comunica allo spettatore – tramite il suo alter ego Yuto Ikeda, il documentarista che nel film decide di realizzare un progetto sul tema del femminismo – di vivere con estremo disagio in una nazione che negli ultimi anni ha riproposto antichi (ma mai dimenticati) modelli discriminatori, così da non consentire agli individui di vivere con piena dignità. Tuttavia, come spesso accade nei Paesi in cui il “femminismo” è un concetto d’importazione relativamente recente, e la critica postcoloniale e decostruttivista fatica a riconoscersi in categorie imposte dall’esterno, il riferimento al “femminismo” come lo intendiamo è vago e generalista.
Da questa operazione – e dalla partecipazione ad un festival di cinema indipendente sul mondo del lavoro – ci si aspetterebbe il tentativo di scavare sotto la superficie del buon costume e restituire il ritratto di un Paese contraddittorio in rapido mutamento – se non un’inchiesta alla Comizi d’amore di Pasolini, una serie di interviste a donne di estrazione differente, a mo’ di Mario Mieli fuori dai cancelli dell’Alfa Romeo – e invece non c’è traccia di esplicita denuncia né di attivismo, toccato solo marginalmente in alcuni fotogrammi che inquadrano un corteo a favore dei diritti LGBTQ.
La prima parte del film è un esperimento di metacinema che ha più l’aria di un making of, in cui Ikeda espone le proprie intenzioni ai finanziatori, alle amiche e all’innamorata durante cene informali, a una lezione universitaria per un corso di Giornalismo, in cui raccoglie le adesioni di volontari da filmare. Le vicende personali del giovane filmmaker si intrecciano con episodi di pacata ordinarietà (primo fra tutti la fine del rapporto con la ragazza che sta per trasferirsi all’estero e gli eccessi alcolici di una giovane sposata molto esuberante, per questo criticata e denigrata per le abitudini “maschili”) e con le vite di altri soggetti imprevisti: una studentessa, una cantautrice pop, una modella di nudo. Un occhio timido le segue nei parchi, per strada, nei locali underground di Tokyo, fa incursione nell’intimità delle loro camerette, seguendo l’incertezza dei loro movimenti e le espressioni cariche di aspettative per il futuro, indugiando con lunghi primi piani sui volti silenziosi e sulle palpebre abbassate durante il riposo. Il letto e i soprammobili giocattolo delle stanze evocano un’ingenua fanciullezza che contrasta con la forza interiore delle ragazze, impegnate ad emergere dalla solitudine e da situazioni familiari difficili, e il rigore delle loro scelte. I dialoghi sono essenziali, l’osso a cui è ridotta la comunicazione a poco a poco si rimpolpa di carne attraverso momenti di condivisione sincera, la Sisterhood invocata dal titolo (termine mutuato dalla militanza nel femminismo radicale di seconda ondata) non ha molto di politico, quanto piuttosto è il legame che si crea attingendo da un oceano sommerso di sentimenti comuni: l’insicurezza, l’oppressione, la mancanza di autostima.
Traspare un ulteriore minimo comun denominatore tra le protagoniste, che svolgono professioni nell’ambito dello “spettacolo” o comunque hanno familiarità con la macchina fotografica e la cinepresa, strumenti che hanno trasformato profondamente il campo del visibile. Scriveva Jean Epstein che in quanto macchine dotate di una “intelligence”, o capacità di ripensare la realtà secondo la prospettiva della propria identità tecnica, questi media sono in grado di agire sulla memoria e sull’immaginazione dell’osservatore. Laura Mulvey, arricchendo queste considerazioni dal punto di vista della teoria femminista, è poi andata oltre la mera constatazione dell’effettività del potere esercitato dai media ottici, coniando nel 1975 il termine male gaze (sguardo maschile) per rilevare nella rappresentazione da essi filtrata la centralità della visione maschile e dell’appagamento di un piacere voyeuristico.
Le donne di Sisterhood in questo senso si riappropriano di un oggetto classicamente associato all’imposizione di un vedere esterno e lo utilizzano come uno strumento per conoscersi, riconoscersi (sono molte le scene in cui le ragazze si scattano fotografie a vicenda) e autodeterminarsi, come ricorda la bellissima testimonianza di Manami Usamaru, che attraverso uno scatto ha segnato inconsapevolmente un passaggio tra la vecchia e la nuova sé, intraprendendo un percorso di redenzione e liberazione da pulsioni di morte con la riscoperta del corpo ritratto. Afflitta dalla depressione e dal confronto con il comportamento virtuoso delle sorelle, convinta di togliersi la vita, voleva lasciare testimonianza del proprio corpo spogliato, in stato di primigenia bellezza e vulnerabilità, anticipando lo stato fragile della morte, e invece ha realizzato che in quella nullità si celava il suo vero essere e della fotografia di nudo ne ha fatto una professione. Un altro modo per sottrarre agli uomini il predominio sul nudo femminile come “mito del modernismo”, direbbe la storica dell’arte femminista Griselda Pollock.
Insomma, nonostante una comprensione dei problemi della donna diversa da quella occidentale, e l’assenza di un intento civile manifesto, ugualmente emerge l’esigenza di ridare voce ad un’umanità negletta. Non è chiaro se lo strumento per comunicare sia il femminismo, ma il problema è stato identificato e la sua condivisione ha fortificato (e continua a fortificare) anche le donne che lottano in silenzio.